C’era una volta lo spirito della Costituente.
C’ERA UNA VOLTA LO SPIRITO DELLA COSTITUENTE
di Carmine Tedesco
Dove c’è Repubblica c’è Costituzione, dove c’è Costituzione c’è Libertà, dove c’è Libertà c’è Politica, dove c’è Politica ci sono i Partiti, dove ci sono i Partiti c’è Competizione, dove c’è Competizione c’è…. E qui mi fermo pressato da un interrogativo: “Regge sempre questa logica?”. Dobbiamo credere, noi, che sia così sempre, con fermezza. Il punto risiede nel considerare bene quale termine deve occupare il posto dei puntini sospensivi. Secondo me, l’unico è partecipazione . Ma non sempre, malauguratamente, è così.
Nata la Repubblica (2 giugno 1946), bisognò mettere mano alla Costituente. I tempi erano molto confusi, le ideologie (democratiche, repubblicane, comuniste, socialiste, liberali, postfasciste) sostanzialmente fondamentaliste, i rapporti aspri: al limite della litigiosità, le aspirazioni variegate e contrapposte. Poco o niente lasciava intravedere un possibile cammino unitario, una collaborazione senza pregiudizi, una partecipazione senza veti. Eppure, nacque l’Assemblea Costituente, pluripartitica e multiideologica, e, al suo interno, per miracolo o che altro, lievitarono volontà, coraggio e energie che guidarono le Forze politiche tutte al reciproco rispetto, ad accantonare differenze/divergenze, a impegnarsi, con l’anima e la mente, a collaborare per modernizzare, in maniera aperta e parallela, giusta, un Paese che voleva e doveva guardare, istituzionalmente, al presente e al futuro. Il prodotto di questo immenso e saggio spirito collaborativo lo si tocca con mano leggendo quel mirabile documento che è la nostra Costituzione Repubblicana, Madre dell’Italia, esempio di equilibrio e forza per le Repubbliche di tutto il Mondo ancora oggi, nonostante qualche sua ruga dovuta ai cambiamenti dei tempi.
Oggi, guardandoci intorno, il clima conflittuale tra le Forze politiche, tutte, è lo stesso di allora ma è drammaticamente assente qualsiasi sforzo per raccordarsi per convivere in tranquillità, pur nella diversità delle idee, e fronteggiare la gravissima crisi economico-finanziaria che ci addenta. Si parla e si agisce quasi solo per opporsi, distinguersi, dividersi, azzuffarsi senza minimamente considerare la possibilità di prendere in seria considerazione le idee e i progetti costruttivi, utili, che vengono dalla parte opposta; sembra che l’unico scopo di qualunque Forza politica sia quello si stracciare, denigrare l’avversario e non di capirlo, interloquire, interagire proponendo punti di vista differenti ma compatibili, proposte alternative ma complementari, progetti anticonformisti e validi per i cittadini. Ognuno pensa unicamente alla sua ‘parte’, al suo elettorato senza giammai lasciarsi sfiorare dal dubbio che la ‘parte sua’ è la Nazione, l’intera Penisola, gli Italiani tutti. Sono, codesti, segni inquietanti di negligenza verso i bisogni del Popolo, di intransigenza partitica, di chiusura cieca. Così agendo si accredita l’impressione che convergere, intendersi, edificare –specie sui punti critici e urgenti- sia segno non di buon senso comune ma di debolezza, soggezione, inquinamento.
Da cosa origina questo scadimento della politica? Qualcuno ha voluto individuarne la causa nel fatto che oggi mancano i ‘grandi uomini’, gli ‘illustri figli’, le ‘personalità carismatiche’. Sarà pure vero; ma è una verità di comodo per un verso e pericolosissima per l’altro: sarebbe come dire che non c’è più niente da sperare. Mi rifiuto di crederci. Da sperare (e da fare) c’è molto. A tutti i livelli. A me, ad esempio, viene in mente che la causa principale risieda nell’indebolimento del concetto di ‘interesse comune’. Anziché, tutti, piegarsi dinanzi all’universalità di detto concetto, al momento della ‘scelta’ ciascuno si lascia irretire dall’individualismo, dal pericoloso senso personalistico che, a parole, tutti demonizzano ma, nei fatti, ciascuno coltiva dimenticando, colpevolmente o anche ingenuamente, che l’ ‘interesse comune’ è il bene di tutti, è la grandezza del singolo, è la forza dell’unità, è la fratellanza civile, è la somma dell’essere e dell’avere, ciascuno per la parte che gli spetta.
A pensarci bene, poi, non è tanto difficile comprendere e impegnarsi nella difesa dei diritti e dei bisogni primari del Popolo. Basta mettere alla base di tutto la partecipazione nel suo significato attivo, nobile, paritario. Non, quindi, un ‘prendere parte’ per comandare/primeggiare bensì per servire e per relazionarsi/con-dividere, non per fare numero ma per costruire insieme, non per esibizionismo/vanità ma con la convinzione interiore che rendersi utile agli altri è bello, che lo scopo del servizio a cui si viene chiamati non è l’autoreferenzialità ma il giovamento della comunità, che anche gli ultimi hanno il diritto di essere ascoltati e sorretti.
Da dove partire? Come operare? Con chi camminare? E’ certamente questa la strada più impervia da percorrere, ma può rivelarsi anche la più gratificante. Generalmente (o anche genericamente) si inizia attribuendo la responsabilità dello scadimento alla famiglia, si prosegue col richiamo alla scuola e, infine, si arriva alla società. Nella fattispecie, secondo me, la principale, se non l’unica fonte rigeneratrice è la qualità dall’associazionismo sociopolitico, specialmente quello partitico, giovanile o adulto che sia. Purché, ovviamente, ci si intenda sul significato del termine. Essere socio, cioè membro di un’associazione, non è la frequenza di alcuni spazi fisici comuni, non è camminare gomito a gomito coi colleghi restando sostanzialmente ciascuno al proprio posto, individui isolati, soggetti tristi che non interagiscono. In questo modo si creano zone chiuse, nascono gruppi circoscritti, linguaggi criptati, recinti.
Associazionismo, di contro, significa collaborazione, fare causa comune, simpatia, spontaneità, disponibilità, stima, reciprocità, ascolto, fiducia verso tutti. Per assorbire questi sentimenti e riprodurli non serve la ‘lezione del capo’, del ‘luminare’, del ‘segretario generale’ ; occorre creare un clima, un ambiente, un humus in cui respirare e gustare i valori della partecipazione, il sapore della comunità, l’essenza della collegialità, il senso della responsabilità personale. C’è il rischio, anche qui, verosimilmente, di cadere nella omologazione, di reprimere la propria personalità, di farsi condizionare da che ci sta vicino; niente di tutto ciò potrà succedere a chi assume il dibattito, il colloquio, il confronto come unici mezzi per relazionarsi, intendersi, contribuire; non, quindi, l’associazionismo per ‘ascoltare e obbedire’, ma l’associazionismo per progettare insieme, consultarsi, compensarsi, completarsi, misurarsi col più autorevole, col più anziano, col più giovane, col più umile, col più invadente dei membri; non luogo in cui le decisioni arrivano dall’alto già impacchettate prima che inizi la discussione, bensì luogo sorgente di proposte, di originalità, di ingegnosità. Il tutto, naturalmente, non lasciato al caso o all’estro del momento e del posto; ma, fissati i traguardi, attribuiti i ruoli, precisate le priorità, venga consentito/concesso a tutti, con responsabilità e in autonomia, di essere ‘socio attivo’, persona libera, operatore in azione.
Certo, per conseguire, almeno in parte, queste conquiste, in tutti i consessi, a partire da quelli di matrice politica, dal più basso al più elevato, ci vorranno pazienza, umiltà e impegno da parte di tutti (segnatamente a carico di che si sente ‘già arrivato’!) ed è possibile farcela solo se, senza tentennamenti, ognuno si lascia permeare dallo ‘spirito di servizio’ che animò e sorresse, tanto gloriosamente, il saggio lavoro della Costituente.
Carmine Tedesco