Assisi: un Convegno di “C.L.E” e l’Ariosto “latino” di Gino Raya.
LATINITÀ OGGI:
Un Convegno del Centrum Latinitatis Europae ( C.L.E.) ad Assisi e l’Ariosto “latino” di Gino Raya-
di Paolo Anelli
ASSISI – Mentre per iniziativa del Miur, al Carignano di Torino, il 14 novembre, è stato allestito, sotto forma di Processo al liceo classico, un dibattito sul valore della cultura umanistica, con i soliti noti (Umberto Eco, Luciano Canfora e Ivano Dionigi), al Liceo Classico “Properzio” di Assisi si è svolto, il 22 novembre, un convegno, Latinitas nunc et hic, che ha affrontato la stessa problematica vista da generazioni diverse. L’iniziativa, voluta dal Preside del “Properzio” prof. Giovanni Pace e dal Centrum Latinitatis Europae (CLE), con il coordinamento di Paolo Anelli, referente umbro del CLE ed ex docente del “Properzio”, ha cercato di dare risposte “dal basso” agli interrogativi che oggi si pongono nel mondo della cultura e della scuola, di fronte ad un pubblico di studenti: tutti quelli dell’indirizzo classico del “Properzio” ed una rappresentanza del Liceo Scientifico annesso al Convitto nazionale “Principe di Napoli”.
Il Preside Giovanni Pace e il prof. Paolo Anelli con i giovani laureati o laureandi ex alunni del “Properzio”:
Luca Villanova, Francesco Busti, Antonella Fattorusso, Eleonora Sìderi, Tiziano Sensi, Pietro Speziali.
Il CLE è un’associazione culturale internazionale, nata nel 1997 per iniziativa del prof. Rainer Weissengruber, docente a Linz (Austria), con lo scopo di elaborare e proporre alle istituzioni scolastiche idee e progetti per l’insegnamento rinnovato del Latino e della cultura classica nelle scuole europee. Le sue attività sono state illustrate dal prof. Andrea Del Ponte, vicepresidente del CLE insieme a Romualdo Marandino. Del Ponte ha anche dato una originale chiave di lettura del problema recentemente espresso da Canfora nel suo saggio Gli antichi ci riguardano.
Giovanni Ghiselli
Giovanni Capitanucci
Il convegno ha però dato voce anche ai giovani, sia con il Premio Migliazza 2014, Eccellenza ginnasiale conferita a Chiara Betti, sia con una corona di interventi finali affidati a neo-laureati o laureandi usciti dai banchi del “Properzio”: Tiziano Sensi (Filosofia), Pietro Speziali (Matematica), Antonella Fattorusso e Luca Villanova (Medicina), Eleonora Sìderi, Simone Pizziconi e Francesco Busti (Lettere), hanno detto la loro sulla “utilità dell’inutile”.
Il Preside Pace con Chiara Betti, Eccellenza ginnasiale.
Il Presidente del CLE, Prof. Rainer Weissengruber durante il suo intervento.
Nella fase introduttiva del convegno ho voluto ricordare la storia, in realtà poco conosciuta, delle scuole di Assisi, storia che consente di comprendere l’origine e le contorte vicende di una parte cospicua della biblioteca dell’ex Istituto Magistrale, un patrimonio soprattutto di riviste di tutto il Novecento, che era stato rimosso da Palazzo Vallemani dopo il terremoto del 1997 e recuperato nel 2013 dal Preside del “Properzio”, Giovanni Pace. Con la soppressione degli ordini religiosi da parte del nuovo Stato italiano, il Sacro Convento di S. Francesco di Assisi fu espropriato, e al suo interno, per iniziativa dello storico assisano Antonio Cristofani e per l’attività promozionale indefessa di un preside, Raffaello Rossi, nacque nel 1875, con l’appoggio del Comune e grazie all’avvallo istituzionale del Ministro Ruggero Bonghi, il Collegio Convitto nazionale “Principe di Napoli” per gli orfani dei maestri elementari. Nei vasti spazi conventuali potevano aver sede le stesse istituzioni scolastiche (elementari, ginnasio e scuola tecnica). Però il Sacro Convento, occupato dal Collegio, fu per decenni rivendicato dalla Chiesa e dall’Ordine francescano finché, dopo una serie di vane trattative, si riuscì a costruire un nuovo imponente edificio, che domina ancora oggi la parte alta della città, dove fu trasferito il Collegio.
Ciò avvenne nel 1925-1927, in concomitanza con il settimo centenario della morte di S. Francesco, grazie alla cooperazione tra l’Ordine dei Frati Minori Conventuali, guidato dall’energico Padre Alfonso Orlini, istriano di Cherso, la Santa Sede con l’opera diplomatica del Conte Maggiorino Capello, il Governo italiano (Mussolini e il Ministro Pietro Fedele), e il Comune di Assisi con la tenacia indomabile del suo Sindaco, Arnaldo Fortini ( foto a fianco), che si oppose con estremo vigore alle manovre di quanti volevano togliere ad Assisi, esiliandolo o addirittura sopprimendolo, il Collegio Convitto che accoglieva orfani dei maestri elementari provenienti da tutta Italia, e che costituiva perciò una grande risorsa per lo sviluppo culturale ed economico della città del Serafico. Da quelle scuole proviene anche il Liceo Classico intitolato ora al poeta latino “Properzio” (nel primo Novecento ad Antonio Cristofani), che nel 1989, in seguito alla fusione con l’Istituto Magistrale “Ruggero Bonghi” (così denominato con la riforma Gentile del 1923, dopo essere stato trasferito nel 1910, come Scuola Normale, dal S. Convento al seicentesco Palazzo Vallemani) ne acquisì la rinomata Biblioteca, risorsa utilissima per gli studiosi e gli insegnanti stessi del Magistrale fin dalla fine dell’Ottocento, che, come scrisse il siciliano Giuseppe Catanzaro nell’Annuario del Centenario (1878-1978), da lui voluto quando vi entrò Preside, contribuirono alle attività delle principali Associazioni culturali di Assisi: la Società internazionale di Studi francescani e l’Accademia Properziana del Subasio.
A dare prestigio a quel Magistrale furono, fra gli altri, il pedagogista Ernesto Codignola, collaboratore di Giovanni Gentile, che vi insegnò prima della Grande Guerra, e Michele Catalano, che la diresse dal 1922 al 1932. Di famiglia catanese, cresciuto a Firenze alla scuola di Guido Mazzoni e Pio Rajna, dopo un periodo d’insegnamento a Ferrara, Catalano portò a compimento ad Assisi, nel 1930, la sua monumentale Vita di Ludovico Ariosto, che ebbe vasta risonanza nel mondo culturale italiano. Catalano lasciò Assisi nel ’32 per assumere la cattedra di Letteratura italiana all’Università di Messina, ma la ricchezza del patrimonio costituito da centinaia di riviste e decine di testate risalenti al decennio di sua presidenza (patrimonio, come dicevo, recuperato nel 2013 dal Preside Pace) è un segno evidente dell’operato di questo studioso siciliano dell’Ariosto, che si dedicò anche con laboriose indagini d’archivio alla ricostruzione storica dell’antica cultura umbra e assisiate (ricordiamo solo lo studio su I maestri di grammatica in Assisi da S. Francesco al 1500). La presenza oggi nella Biblioteca del Liceo “Properzio” di questa preziosa mole di riviste e rassegne bibliografiche offre in particolare agli studiosi ed agli studenti l’opportunità di conoscere a fondo la cultura italiana di quegli anni.
Tre esemplari delle migliaia di riviste del Liceo “Properzio” |
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Atene e Roma 1925 |
Levana 1928 |
Nuova Antologia 1932 |
In questa miniera di saperi, dalla pedagogia alla scienza, dalle lettere alle arti, dalla filosofia alla storia, troviamo la latinitas nelle rassegne bibliografiche e nelle riviste di carattere generale come la “Rivista d’Italia”, fondata da Carducci, o la ottocentesca “Nuova Antologia”, e viepiù da quelle centrate sullo studio del mondo latino. In un fascicolo di “Roma”, del 1941, un articolo sulla Prosa latina cristiana ricorda l’opera di Filippo Ermini, che lamentava gli inveterati pregiudizi che in Italia, centro della latinità, impediscono, a differenza di altri paesi europei, di sviluppare la filologia latina medioevale. “Atene e Roma” nacque come Bollettino della “Società italiana per la diffusione e l’incoraggiamento degli studi classici”. Un articolo di Alberto Gianola, in “Levana”, una delle riviste fondate da Codignola: Il tormento del latino…
Ma ecco che l’occhio cade sull’indice di un fascicolo di “Roma”, fine 1943, dove si parla di Roma nell’opera dell’Ariosto. Ho letto il finale di quell’articolo, in cui più volte si citano opere di Michele Catalano, e dove nei versi ariosteschi si coglie “un’eco – divenuta nuovo e sublime canto – di Virgilio e di Stazio, di Ovidio e Catullo… Questa, forse, è la vera Roma nell’opera dell’Ariosto”. L’autore del pezzo è un personaggio a noi ben noto: Gino Raya. Un altro siciliano. Prima di essere lo stroncatore de Il Romanzo (1950), il padre del Famismo (1961), della Biologia culturale (1966) e della Critica fisiologica, nonché il maggiore studioso del Verga, con due imponenti lavori: la Bibliografia verghiana (1840-1971) e la Vita di Verga, il Raya si fece conoscere, appena 23enne, con i suoi studi sui Poeti del Rinascimento (1929), che ebbero la stampa della Libreria Tirelli di F. Guaitolini di Catania, nella collana “Revisioni critiche” da lui stesso diretta. Della produzione giovanile del Raya non ho potuto dilungarmi nel mio intervento al convegno, e merita in questo sito, ricorrendo il 27° anniversario della morte (2 dic. 1987), aprire una finestra sull’impatto del catanese “maledetto” nello scenario culturale dei primi anni ’30, condotto sulle riviste che abbiamo qui, nella biblioteca del Liceo “Properzio”.
Recensione di Natalino Sapegno a Poeti del Rinascimento di G. Raya, in “Leonardo” dic. 1929.
Frontespizio del libro di G. Raya Lirici del Cinquecento, 1933
Santi Giuffrida ci informa, nella sua preziosissima bibliografia rayana, in Gino Raya – Profilo e antologia d’un contemporaneo (Ed. G. D’Anna, Messina-Firenze, 1951), che alla fine del 1929 furono Nino Cappellani nel “Corriere di Sicilia” del 18 dicembre, e il valdostano Natalino Sapegno, allora docente di liceo a Ferrara (nel 1936 avrà cattedra di Letteratura italiana a Palermo), nella prestigiosa rivista “Leonardo” (dic.), nata nel 1925 come “rassegna mensile della coltura italiana”, e diretta da Luigi Russo, ad occuparsi del Raya recensendo i Poeti del Rinascimento. (L’esemplare del volume, oggi conservato nella Biblioteca Fondazione Sapegno con sede nel castello valdostano Tour de l’Archet, ha sul frontespizio la dedica dell’autore a Luigi Russo).
Sapegno (28 anni) e Raya (23): primordi bollenti. Sapegno riconosce nel Raya “un ingegno acuto e vivace, oltreché uno spirito polemico agile ed arguto”, però gli rimprovera “il rifiuto d’ogni tradizione e autorità, compresa quella del consenso diffuso e secolare degl’uomini intorno ad un’opera d’arte determinata: attitudine fino ad un certo punto legittima, ma pericolosa se condotta agli estremi”. Così la “spregiudicatezza di fronte ad un capolavoro riconosciuto”, la Gerusalemme liberata del Tasso, è per Sapegno “un gesto grossolano”; tuttavia “l’errore del Raya… il procedimento analitico e frammentario ch’egli applica a qualsiasi opera di letteratura”, non gli impedisce d’altra parte di “offrire spunti critici originali ed indovinati”. Però “l’ingegno acuto s’accompagna nel Raya con la superbia che gli fa sopravalutare l’importanza ed i limiti delle sue osservazioni”. Infine, dopo aver elogiato le pagine sul “Trionfo di Bacco ed Arianna”, quelle sul miglior sonetto del Tansillo, e il saggio sulla “Zaffetta” di Lorenzo Veniero, a Sapegno “pare strano – in conclusione – che chi è in grado di cogliere la povera ed esile vena poetica che scorre tra la molta pornografia di quel poemetto cinquecentesco, non sappia poi sentire la musica tanto più chiara e commossa che esalta le ottave del Tasso”. La critica schietta di Sapegno non poteva provocare in Raya, che diverrà il teorico del sadismo critico, una reazione di sdegno, come spesso accadeva invece nei critici che lui andava a toccare nei suoi scritti, dato che nella sua lealtà il catanese, dirigendo la collana “Revisioni critiche”, si proponeva, con formula esplicita, di “prendere in esame opere e problemi, personalità e movimenti culturali con la massima analisi e spregiudicatezza possibile”; accettava quindi d’ essere trattato con le stesse armi che usava. Con Sapegno infatti Raya mantenne un rapporto di rispetto, come attesta la dedica che accompagnò, nel 1939, a Palermo, il dono del suo Ottocento inedito: studi e ricerche.
Tra le recensioni a Poeti del Rinascimento Giuffrida indica quella del Sapegno ma nel disegnare il profilo di Raya preferisce citare le espressioni di consenso di Giuseppe Fatini in Civiltà moderna (feb. 1930), che possiamo leggere nella biblioteca del “Properzio” insieme a quella con cui Mario Marcazzan, nel “Leonardo” di giugno 1930, prende in esame il volume riconoscendo subito che, quanto alla dichiarata spregiudicatezza, Raya “ha indubbiamente tenuto fede a se stesso”. Sulla linea del Sapegno contesta il frammentismo critico, le conclusioni erronee sull’Orlando Furioso e sull’Ariosto considerato grande narratore ma non poeta, in aggiunta gli rimprovera “una grave confusione d’idee” e la pretesa di “dimostrare con un’analisi formale spinta sino alla pedanteria la verità di quanto propone”. Tuttavia ammette nel finale che in quei saggi “non mancano sprazzi d’acume critico, e qua e là osservazioni ingegnose e sottili”. È il siracusano Gaetano Trombadori (o Trombatore), che con Sapegno pubblicherà dal 1941 i volumi Scrittori d’Italia, e che nel “Leonardo” di maggio-giugno 1929 aveva esaminato gli Studi ariosteschi degli ultimi trent’anni, a recensire sullo stesso “Leonardo” (lu.-ag. 1934) l’antologia Lirici del Cinquecento curata da Raya quando insegnava in un liceo di Massa, come si evince dalla dedica (“A mia figlia Ala / un libro nato insieme con lei / Massa, 13 luglio 1933-XI”). Un libro che è sì un’antologia per i licei, ma, a giudizio di Trombadori, “non è un libro scolastico nel senso chiuso e stantio del passato (…) “Raya è giovane di troppo vivo ingegno e fresca preparazione, per non credere che nella scuola sia utile portare i problemi vivi e attuali della nostra cultura, che sono gli elementi di cui è fatta la nostra vita di studiosi”. Come sua abitudine metodologica Raya fa una breve storia della critica sulla lirica del Cinquecento, che arriva fino al Croce, le cui conclusioni “non si sa adattare a sottoscrivere”, e risolve il controverso problema generale della lirica del Cinquecento con “l’unica risorsa, metodologicamente irreprensibile”: affrontare il problema dei singoli lirici. Qui il Raya “dà ancora una prova di quella spregiudicatezza critica da lui mostrata in altri lavori”, e se talvolta giunge a conclusioni che possono lasciare perplessi, usando un linguaggio critico “a volte iperbolico, spesso esagerato”, tuttavia “come segno certo di indipendenza di giudizio, si fa tenere nel debito conto”. I suoi giudizi “magri” escono da un “coscienzioso” esame ai poeti rinascimentali. Trombadori concorda: “al nostro Rinascimento mancò la lirica di intonazione alta, meditativa, solenne, da colloquio con Dio, al modo, per far qualche nome, di Dante, del Petrarca, del Leopardi”.
Frontespizio della rivista Leonardo 1934 con la recensione di G. Trombadori a Lirici del Cinquecento di G. Raya.
Una riflessione sull’ambiente critico letterario in quel 1933, che è l’anno in cui si è celebrato il quarto centenario della morte dell’Ariosto, ed è l’anno in cui si fanno i primi conti con la spregiudicatezza critica del giovane Raya, è favorita dal lungo saggio in cui il senese Giuseppe Fatini, allora Preside al Liceo Cicognini di Prato, fa, sul “Leonardo” (marzo 1934) il Bilancio del centenario ariosteo, una minuziosa rassegna di articoli e saggi apparsi nel contesto celebrativo, affidata, non a caso, ad uno studioso indefesso del poeta ferrarese già da un paio di decenni, e che diventerà un benemerito degli studi ariosteschi componendo una monumentale Bibliografia della critica ariostesca 1510–1956, pubblicata a Firenze nel 1958 a cura dell’Istituto nazionale di studi sul Rinascimento.
Articolo di Giuseppe Fatini in “Leonardo”, marzo 1934.
Ebbene, nel suo Bilancio Fatini liquida Raya accennando soltanto a un suo “breve” articolo in Regime fascista del 12 aprile 1932, ma si tratta del 1933, e in realtà l’articolo tanto breve non è se occupa tre colonne estese in verticale quasi a tutta pagina. L’articolo è indicato così: Le rime di Ludovico Ariosto, ma in realtà il titolo è: Le rime dell’Ariosto (1533-1933). Fatini dice soltanto che l’articolo di Raya “al lirico italiano nega ogni valore”. Nient’altro, se non che il critico toscano polemizza sul fatto che Raya in quell’articolo lo aveva ripreso per non aver intitolato Rime anziché Lirica una raccolta sua che comprendeva anche carmi latini, e di contro rimanda al suo studio ultimo, del ’34, su Le rime di Ludovico Ariosto. In realtà Raya, che non trovava nelle opere minori dell’Ariosto le qualità del poema, aveva osato, riguardo alle Rime, annotare in parentesi: “(Giuseppe Fatini, curandone diligentemente l’edizione per gli Scrittori d’Italia del Laterza, nel 1924, la intitolò: Lirica: ma perché [non] lasciare il titolo tradizionale, quando il nuovo è ancor meno conforme ai nostri gusti?)”. Un’osservazione marginale che, formulata con garbo in termini interrogativi, e fondata su questioni di gusto, non è un colpo di spada o di fioretto, quali il Raya ha già ricevuto in abbondanza in queste prime schermaglie soltanto per la sua “spregiudicatezza di fronte ad un capolavoro riconosciuto” della storia letteraria italiana. Non appena invece è lui ad accennare una critica, pur velata, verso un collega più anziano, scatta una reazione che, tuttavia, non comporta rancori eterni. Il Fatini infatti, sereno prima della schermaglia (nel 1931 in Civiltà moderna, feb., a commento del Masuccio Salernitano: “I brevi e spigliati capitoli sono ricchi di osservazioni psicologiche ed estetiche assai buone”), resta sereno poi, quando giudica “fatta con gusto” la scelta delle rime nell’antologia Lirici del Cinquecento, e trova “succoso” il commento estetico che segue ad ogni poesia” (“Giornale storico della letteratura italiana”, marzo 1934).
Spregiudicatezza da una parte, giudizi consolidati dall’altra con qualche risentimento che si supera con la comune passione culturale. Il Fratini continua a seguire la produzione del vulcanico catanese e le schermaglie polemiche servono anzi a conoscere meglio le opinioni altrui, a rispettarle, a vagliare le proprie. Finché permane la buona fede. Non sarà così dopo il 1950. Con la storia de Il Romanzo italiano della collana vallardiana, dove le stoccate non sono dirette tanto ai “movimenti” quanto alle “personalità”, non tanto a quelle del passato ma a personalità viventi, le reazioni degli idoli infranti, di amici e nepoti, nelle ‘parrocchie’ del dopoguerra, diventano feroci, e i segni di quella che a buon diritto il Raya chiamava “congiura del silenzio”, si ritrovano nelle tante riviste degli anni ’50 e decenni successivi, fino ai nostri giorni. Una di queste, che dovrebbe essere al di sopra delle congreghe, perché creata nel 1950 dal Ministero per i beni e le attività culturali come “bollettino di informazione sui libri e sui periodici pubblicati nel nostro Paese” – si tratta di “Libri e riviste d’Italia” – ebbene, tale periodico bibliografico, dotato di crisma istituzionale, nel numero di novembre 1958, elenca ben 118 testate, tra le quali non figura il trimestrale “Narrativa”, fondato da Gino Raya nel marzo 1956.
Frontespizio di Narrativa, sett. 1956, dedicato a Ferdinando Pasini, scrittore triestino che recensì le opere di Gino Raya negli anni ’30.
Piccolo esempio di quel cedimento che ha travolto la critica novecentesca: dalla ricerca di criteri obiettivi generali al particolarismo personale, da quello che è giusto a quello che conviene, dal rispetto delle opinioni altrui alla rissa. Con lo sbriciolamento dell’onestà intellettuale s’impone la logica del benigno a’ suoi ed a’ nemici crudo. E contro questa logica dilagante, che ha portato alla morte della critica, Gino Raya ha combattuto con un trimestrale a proprie spese (1956-1965 “Narrativa”; 1966-1987 “Biologia-culturale”), lasciando a disposizione di tutti il frutto delle sue infaticabili ricerche verghiane nella monumentale Vita di Verga.
Paolo Anelli