Palazzolo Acreide: Bicentenario nascita P. Giacinto Farina.
2° Centenario della nascita del M. R. P. Giacinto M.a Farina
(8 Maggio 1816 – 8 Maggio 2016)
“Palazzolo Acreide – Sabato 7 Maggio 2016, alle ore 18.30, nella Chiesa del Sacro Cuore del Convento dei Padri Cappuccini di Via Nazionale in Palazzolo Acreide, il prof. Corrado Allegra ha ricordato e presentato la figura del cappuccino R. P. Giacinto Maria Farina, studioso e storico della Città, nel 2° centenario della sua nascita. Pubblichiamo la relazione nel nostro Amico.
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1816-2016: 2° Centenario della nascita di P. Giacinto Maria Farina
di Corrado Allegra
Nel mese di Settembre del 1867 il Sindaco di Palazzolo consegna al Sac. Farina Paolo la Carta per la pensione religiosa concessa dal Governo Italiano:
Numero d’ordine: 39558 – Pensione Religiosa. Regno d’Italia. Amministrazione pel fondo pel Culto. Certificato d’assegnazione di Pensione vitalizia a carico dell’amministrazione del Fondo per il Culto nell’annua somma di lire Duecento cinquanta a favore del Sac. Farina Paolo in Religione Giacinto M.a già membro professo nella suppressa Casa religiosa dei [Cappuccini] di Palazzolo Acreide, nato a Palazzolo Acreide il 8 Maggio 1816, inscritto al n° 6361 del registro generale delle pensioni assegnate dall’art. 3 della legge 7 Luglio 1866, n° 3031 con decorrenza dal giorno 28 Decembre 1866. Il pagamento di tale pensione avrà luogo a trimestre maturati, mediante la consegna per parte del sudetto penzionato, del certificato di esistenza in vita, e di domicilio, la esibizione del presente, ed il rilascio di regolare quittanza. Firenze 13 Luglio 1867. Direttore Genle G. Mos~. Il Capo della divisione di Contabilità: Luig~. Volendo il pensionato cambiar domicilio dovrà darne preventivo avviso all’Agenzia del Tesoro della Provinc. e a quest’Amministraz.e per mezzo del Sindaco, indicando la nuova dimora onde si possa provvedere pel pagamento ivi della pensione.
In primo luogo inizio cercando di delineare il contesto familiare del nostro P. Giacinto. Della sua famiglia si sapeva ben poco. Si conosceva solo la sua data di nascita, le sue origini e la data della sua morte. Si conosceva il padre, ma non la madre e tanto meno gli altri suoi parenti.
La Carta della pensione mi permette di apprendere che Padre Giacinto nasce a Palazzolo il giorno 8 Maggio 1816 e che il suo nome prima di essere ammesso nell’Ordine dei Reverendi Padri Cappuccini è Paolo. Partendo da questi dati e tramite le scarne notizie che nella Selva indirettamente ci dà sulla sua famiglia, tramite le informazioni che ricavo dagli Archivi delle Parrocchie di S. Sebastiano e della Chiesa Madre e anche tramite quelle che mi ha dato Salvo Caligiore, che ringrazio vivamente, cerco di abbozzare il suo albero genealogico.
Innanzi tutto nella Selva di Siracusa, a pag. 531, leggo che il padre si chiama Massaro Mariano e che ha 86 anni ed è di perfetta mente e di perfetto corpo nel 1865. Nella Selva di Palazzolo, a pag. 295-296, leggo che il Sac. Giuseppe Gallo detto Maureddo era suo zio che: Lasciò alla Chiesa [* di S. Sebastiano] la Cappellania di Giuseppe Gallo, e Maria Farina sorella di mio padre, che dopo la morte di Itria sorella maggiore divenne erede universale dei suoi averi.
Molto probabilmente il Sac. Giuseppe Gallo, chiamato impropriamente zio, è parente del marito di Itria, perché ne eredita gli averi, ma non c’è nessuna relazione di parentela diretta con Paolo Farina il futuro R. P. Giacinto. Il padre, Massaro Mariano Farina, ha altri fratelli e sorelle, tutti figli di Andrea Farina e Anna Branca, almeno 3 sorelle e tre fratelli: 1° Vincenza Ignazia Innocenzia (n. 3 01 1761); 2° Giuseppe Urbano Ignazio (n. 4 02 1764), 3° Mariano Michele (n. 28 09 1766), 4° Itria Giuseppa Urbana, sorella maggiore citata nella Selva (possidente, morta il 21 Marzo 1845), 5° Giuseppe Salvatore Urbano (villico, morto il 15 Ottobre 1842), 6° e un’altra sorella di nome Maria, anch’essa citata nella Selva. Sempre nella sua Selva leggo che P. Giacinto ha una sorella sposata, di cui non riporta il nome, e almeno un fratello di nome Andrea, anche se sembra essere uno dei fratelli, e in effetti ha altri fratelli e sorelle, precisamente 4 sorelle e 5 fratelli: 1° Paola Santa Anna (nata il 28 11 1808); 2° Salvatore (che sposò Pizzo Concetta il 14 Gennaio 1837 e morì il 15 Aprile 1878), 3° Giuseppa Carmela Paola (nata il 12 09 1813); 4° Carmela Anna Giuseppa (nata l’8 01 1819); 5° Vincenzo (nato il 30 10 1821); 6° Vincenzo (che nacque il 3 Febbraio 1823, sposò Bufalino Gaetana il 6 Settembre 1854 e morì il 12 Febbraio 1875), 7° il già ricordato Andrea (che nacque il 20 Gennaio 1826 e sposò Alì Nunzia il 2 Settembre 1856), 8° Giuseppa Maria (che nacque il 7 Novembre 1828, sposò Cardinale Paolo il 28 Ottobre 1848 e morì l’8 Maggio 1905) e 9° Francesco (che nacque il 15 Luglio 1832 e morì il 24 Marzo 1835).
Nell’atto di battesimo leggo che la notte dell’8 Maggio 1816, verso l’ora sesta nasce il figlio di Mariano Farina e di Domenica Calleri cui viene dato il nome: Michele Vincenzo Paolo. Dal suo atto di morte apprendo che muore il 16 Giugno 1886; da quello del padre apprendo che questi muore il 5 Dicembre 1866 e che è figlio di Andrea Farina e di Anna Branca; da quello della madre apprendo che è filandiera, che è figlia di Salvatore Calleri e di Stefana Catalano, e che muore il 13 Gennaio 1852. Per completare il suo albero genealogico:
il nonno Andrea Farina è figlio di Gregorio Ignazio Farina (classe 1693) e di Giuseppa Matarazzo;
Gregorio Ignazio Farina è figlio di Santo Farina e di Arcangela Bonfiglio, sposi nel 1671.
Santo Farina è figlio di Paolo Farina e di Paola Farina de Ribera, sposi nel 1640 circa.
Paolo Farina è figlio del fu Nicola Farina, che vive tra gli ultimi decenni del sec. XVI e i primi del sec. XVII.
Adesso so qualcosa in più sulle origini di questa famiglia da cui viene fuori un astro luminoso che farà risplendere la Città di Palazzolo Acreide. Non so quante tesi di laurea hanno riportato e riportano il nome del Rev. P. Giacinto Maria Farina, sono sicuramente moltissime; Antonino Uccello e Vincenzo Teodoro, per citarne alcuni, e anche nostri contemporanei come Nello Blancato, hanno richiamato e richiamano continuamente passi ed episodi della sua Selva. Marcello Cioè nel suo volume I Conventi Cappuccini di Palazzolo Acreide dà una scheda abbastanza esauriente sul nostro Padre Giacinto sia per quanto riguarda la sua provenienza, la sua formazione, la sua vita religiosa e il suo impegno soprattutto come uomo della Chiesa al Servizio di Dio per il miglioramento del suo popolo per poi soffermarsi sulla sua opera La Selva e quindi non sono io a scoprire il Rev. Padre Giacinto Maria Farina. Certo la mia relazione potrebbe sembrare facilitata da questa premessa, ma sono consapevole che parlare del Rev. Padre Giacinto, soprattutto per me che ho trascritto e ho riletto più volte la sua Selva, diventa non tanto difficile quanto complesso perchè spero di poter trasmettere con questo mio intervento a voi quelle splendide sensazioni che ho avuto durante la lettura delle pagine della Selva. Consapevole che solo pochi abbiamo avuto questa fortuna di leggere interamente la Selva, nel mio discorso cercherò di fare intervenire direttamente la voce narrante del Rev. Padre Giacinto, per dare un piccolo saggio del suo modo accattivante di usare e porgere la parola.
Iniziando a leggere la Selva conservata a Palazzolo, mi trovai di fronte a un incipit eccezionale, una rara fotografia del nostro Rev. Padre Giacinto Farina assieme al Rev. Padre Venanzio Lantieri, con l’iscrizione: Mea mecum mea Comi Comes 1866. I due esuli. L’iscrizione fa riferimento a un particolare momento della vita del nostro Rev. Padre Giacinto e del Rev. Padre Venanzio, quando furono condannati al Domicilio Coatto a Como in conseguenza delle odiose leggi emesse contro gli Ordini Religiosi che si conchiusero con la confisca dei loro beni, costretti ad abbandonare l’Abito Regolare, per indossare quello Secolare, talvolta con la loro cacciata e persino con il confino dei Frati. E proprio Padre Giacinto, come vedremo più avanti, in alcune pagine della sua Selva ci descrive e ci fa rivivere alcuni momenti di questo forzato esilio, dalla partenza da Palazzolo fino all’arrivo nella terra ospitale di Como e successivamente fino al suo ritorno a Palazzolo.
E nella pagine successive della Selva contemplai due disegni di Giuseppe di Giacomo, insegnante elementare di Palermo, disegni che raffigurano entrambi il titolo dell’opera: SELVA. Sono disegni tardo ottocenteschi che richiamano l’arte della miniatura e l’uso antico di decorare le lettere e di animare le pagine con pregiatissimi motivi ornamentali. Soprattutto il secondo disegno compedia la complessità della sua opera: quella grande figura che sembra un Serpente, ma non lo è, che si anima di animali, di foglie e di volute, che si intreccia in modo sinuoso formando la S e che si unisce con le altre lettere del titolo la E, la L, la V e a A in una fantasmagorica successione di figure che accattivarono la mia attenzione. Furono momenti per me particolari che ancora oggi mi permettono di parlare di questo grande Uomo, figlio di Palazzolo Acreide, con il dovuto riguardo e con il dovuto rispetto che solo i grandi Uomini meritano.
Eppure Fra Giacinto, nella sua consapevole grandezza, fu un uomo umile che, attraverso la curiosità, andava sempre alla ricerca della conoscenza per trarne materia per il suo perfezionamento morale; a pag. 9 della sua Selva scriveva il primo Novembre 1869 rivolgendosi al Lettore: “La Divina Bibbia, che è il conservatorio dei sublimi operati dell’antichità, è un testimonio perenne di quel che noi enunciamo. Gli è questo dunque il motivo principale, che mi muove ad impiegare qualche frazione di tempo nel delineare di tanto in tanto qualche pagina di questo volume, acciò il mio fratello, e compatriota spinto dalla curiosità legga nei trascorsi eventi l’avvenire: e in ricordando il mondo altro non essere che un teatro in cui succedonsi perennemente le volubili scene comico-tragiche, impari a ben rappresentare la sua parte, pria che la rappresenti nel teatro dell’eterno avvenire o fra i comprensori celesti, o fra gli spiriti d’abbisso. Questi sono i miei desiderî, questi i miei voti. Quando tu leggerai questo scritto, io avrò consunta la mia parte delle scene di quaggiù. Chi sa quale scena rappresenterò allora! Ti scongiuro a ricordarti dell’anima mia. A rivederci nell’eternità!” E a pag. 21:
“Ma quale vergogna non è per l’uomo storico, mentre conosce a capello i fatti della Francia, e della Spagna, ignora poi i fatti della propria Patria. Bisogna ripetere a questo quel che una volta una donnicciola disse a Talete Milesio, che era caduto in un fosso per aver voluto, camminando, osservar le meraviglie del cielo stellato: eh Signore, imparate prima le cose della terra, e poi quelle del cielo. Impari prima lo storico le cose del proprio paese, e poi quelle degli altri, se non vuole qualche volta arrossire trovandosi nelle circostanze del filosofo in parola.
“Non pretendo però che il mio compatriota venga da me per esserne istruito giacché non son io da tanto, da potere appagare le sue brame (Non è mio scopo compilare l’istoria di Palazzolo ma solo annunziare gli avvenimenti più cospicui; quindi di questi, non di quella avrò premura. Intorno all’istoria dirò solo qualche cosa per dar una base agli avvenimenti in parola, che solo scriverò, e non descriverò.). Io scrivo invita Minerva, ed anco invita voluntate: in somma non per passione, ma per compassione; cioè per non fare del tutto rodere dall’edace tempo tante notizie, che concorron alla perfezionabilità dell’uomo filosofo, e dell’uomo cristiano. Quindi è mio proposito di enunciare le cose con semplicità, e brevità, oltre alla dovuta fedeltà, essenza dell’Istoria. “Giacché non iscrivo per passione: sia dunque tutto a gloria del Signore, e della Vergine Immacolata ogni lettera, e ogni parola.”
Ciò è significativo per comprendere l’opera storica del nostro Giacinto che va oltre i limiti di una gretta e semplicistica interpretazione dei fatti. Gli avvenimenti storici durante la sua vita certo non sempre gli saranno favorevoli. L’unità d’Italia, che per noi è un avvenimento storico e politico di grande importanza, per il nostro Giacinto è l’inizio di un susseguirsi di momenti drammatici che lo portano a perdere non solo la libertà ma anche e soprattutto il suo Convento e la sua Chiesa. Prima di quella data il nostro Giacinto attraverso i suoi studi e la sua conoscenza si fa apprezzare come Lettore di Filosofia e di Teologia, come Guardiano del Convento di Palazzolo, come Definitore Provinciale e come Predicatore, soprattutto come Quaresimalista, invitato da tutte le Chiese di Palazzolo e in altri paesi.
Ora cercherò di delineare quali erano i tratti essenziali della sua potente personalità organizzativa e nella sua Selva abbiamo esempi del suo modo di procedere in occasione di particolari momenti difficili, lasciandosi guidare dalla calma e dal buon senso per risolverli. È il caso in cui quando nel 1849 D. Sebastiano Italia, padre del giovane D. Francesco Italia Nicastro, accusato dal popolo re, corse il rischio di morte, e venne chiuso nelle carceri pubbliche. Nel frattempo della notte è giunta una Squadra da Monterosso. Si cercano di aprire le carceri, ma non si trovano le chiavi. Il Parroco Musso e il fratello D. Girolamo, il Giudice e il Sindaco cercano di calmare quel popolo inferocito, ma il popolo vuole proprio ucciderlo. Qualcuno va al Convento perché è necessario un Predicatore. Là nelle carceri si sta cercando di uccidere il Sig. D. Sebastiano Italia. Al Convento non si sa come risolvere la questione. È meglio a questo punto che lascio parlare le pagine della Selva:
“Intanto la cosa non ammettea dimora. Io mi animai colla confidenza in Gesù Crocifisso …. Andai alla cella disposi le cose in breve da non ritornarvi più, e mi diedi nelle mani della divina Provvidenza. Chiamai tutti i Religiosi, anco il Rev. Girolamo, e poi dissi: (pag. 722) Se volete far un sacrificio stopera a prò del prossimo e della patria, perché questi sono i momenti d’uccidersi tra loro ubriachi di ira, e di vendetta, farete come la penso io, e non altrimenti. “Prima di tutto prendete dalla cassa tante torcie quanti siam noi e un solo il più anziano colla corona di spine, e il libano al collo inalberi il Smo Crocifisso. E il Reverendo si pari per la prima predicuccia. Tutti questi strumenti si portino sotto il mantello, e non si mostrino, se non al mio segno. Andiamo in nome di Dio, e di Maria Immacolata.
“Così uscimmo dal Convento. E camminammo per via silenziosi, e disordinati …. Ci avvicinammo al luogo fatale, ch’era appunto la piazza di sotto, e sentimmo un gran vocio terribile, che ci facea rizza i peli della carne, invocammo l’ajuto divino. Abbiamo acceso uccultamente le torcie, e le abbiamo nuovamente posto sotto il mantello: Io dissi: formiamo tutti una corona attorno Gesù Crocifisso, che stava pure nascosto, e camminiamo disinvolti: quando saremmo immezzo la calca, io griderò forte: Santa Maria. Tutti alzeremmo le torcie insieme al Smo Crocifisso, e a voce alta risponderete: Ora pro nobis: se il Popolo si commuove, non temete, Dio l’ha dato nelle nostre mani. Così detto, abbiamo camminato, siamo giunti alle prime armate; io alzai gli occhi per mirare i miei patriotti, quei patriotti che [spirano] amore per la loro dolcezza, ma che vidi: credetemi, non mentisco: Ho veduto una moltitudine di fiere, e più ancora …. Gli occhi sembravano due sanguine comete, il volto scontrafatto, e quel che più mi colpì fu, il vedere le loro bocche piene di schiuma, come i cani idrofobi.”
“A questa vista il cuor moltiplicò i colpi in modo incalcolabile, il sangue mi gelò, e per forza potetti proseguire la santa preghiera. Intanto ecco il tratto della divina misericordia, e provvidenza che si serve sempre delle cose miseri per far trionfare la sua gloria, (pag. 723) appena si disse: Santa Maria. Ora pro nobis, quel popolo non poté durarla in quel modo bestiale, eccolo togliersi i berreti, scoprirsi il capo adonta del freddo; quelle voci, e più quei lumi in quel luogo oscuro, e soprattutto quella divina imagine di Gesù Crocifisso lo sbarlordì, trasecolò, e restò stupefatto. E continua più avanti.
“Intanto io proseguiva a predicare dicendo quest’altro argomento. Voi non dovete uccidere quel galantuomo da voi. Ed ecco il perché: o è reo, o innoccente. Se è reo, abbiamo il Giudice, perciò per non mettere nella vostra coscienza questa responsabilità è conveniente farlo da lui condannare. Se è innocente …. E voi vi dovreste arrossire, e dolere tutta la vita l’aver ucciso un Padre di figli senza reità. …. Via dunque miei paesani sempre docili, e buoni, andiamo alla Chiesa nostra che apparecchiata colle porte aperte, che vi attende ivi il Smo Sacramento per dar a tutti la S. Benedizione …. Viva la misericordia di Dio! E tutti gridavano così. Poi Viva Palermo, viva la libertà, e tutti gridavono lo stesso. Di poi formammo una corona di torcia al Smo Crocifisso e tutto quel popolaccio che sarà stato un due mille abbiamo fatto via pel Convento pieni tutti di giubilo, e cantando ad alta voce la litania; e di tanto in tanto gridando più alto viva la Misericordia di Dio, viva Palermo e la libertà: con questo concerto le cose furono menate dalla divina Provvidenza ad ammirabil punto. Restarono solamente di tanto popolo circa una sina di persone delle più caparbie per diroccare le porte, tutti gli altri allegramente ci siamo portati alla Chiesa …. (pag. 725) Noi intanto abbiamo spedito innanzi alcuni frati che accendessero tutte le torcie, e i lumi della Chiesa che erano assai, per ogni stazione della Via Crucis c’erano sei torcetti, l’altare Maggiore era il più ornato; era in vero bellissima. Entrammo per forza nella Chiesa. Abbiamo esposto il Divinissimo: tutti a terra genuflessi compenetrati della sacra funzione. Il Bne indicato Bibbia volle che io avessi altra fiata predicato a quel popolo compenetrato: lo feci pma di far la benedizione, cioè dopo dell’orazione, e dissi così in breve a quella calca immenza interna ed esterna. Popolo di Palazzolo, per dovunque predicato: popolo saggio, buono e docile …. Questo Dio sta sera vuol dare la sua Santa Benedizione, e mi sento dire, che ella sarà benedizione per tutti quei che dopo se ne vanno pacifici a casa, e sarà maledizione per coloro che vogliono seguire a disturbare l’ordine della Patria. Voi dunque o Madri prendeti pei bracci i vostri figli, voi o spose tenete [tenete] i vostri sposi, voi o sorelle abbracciate i vostri fratelli …. Tutti andate ai vostri focolari benedetti per sempre ora e nel Paradico. Come spero. Fatta la Benedizione: viva la Misericordia di Dio. Ite. Benedetti a vostra casa tutti.”
E in Chiesa il Rev. Padre Giacinto, dopo aver pronunziato una breve orazione dà la Santa Benedizione e conclude:
“Qui veramente vi fu una scena assai commovente. Vedere quelle [donine] amorevolmente abbracciare i suoi, e condurli a casa. Tutto finì sublime, come Dio lo volle. Mi si riferì alla dimani da M.° Paolo Pizzo mio amico la facenda delle scopette, e quel che si è detto di sopra. Mi si riferì per parte del D.r Fiume, che solamente un sei, o otto persone scendevano alla carcere brontolando contro i frati. Tutto ciò fu alla Domenica delle Palme circa 3 a 4 ore di notte del 1849. Dopo due giorni le minaccie contro me crescevano, e la sera del Giovedì Santo, mentre io andava al posto di bonordine (pag. 726) colla mia solita arma, cioè col Crocifisso, mi incontrarono (eran le 2 ore in circa) quattro contadini colle zappe sulle spalle, e udi dirsi tra loro: ancora campa iddu …. na paura: Duminica …. Si dicea pel Paese che il giorno di Pasqua io dovea far parte della sua delizia. “Est Deus! Arcani di Dio! Al Venerdì Santo entravono i Reggi. E tutta quella potenza del Popolo Sovrano andò in fumo. Non si pensò più al Pre Giacinto. Viva Dio! Il Rev. Girolamo ancora ed altri 14 dovevano accompagnarmi nell’agone della morte. Anch’essi risero meco delle mire umane! “Intanto, per grazia solo di Dio, che si servì di noi, perché strumenti più deboli (mentre i dotti, e Santi nulla fecero) quel Sig. D. Sebastiano Italia, ed altri ancora del Paese furon liberati, e prosiegue la sua vita, coi suoi figli che sono la corona del Paese, in calma dando sempre il solito buon saggio di sua buona condotta. Tutto questo fu a 1 Aprile 1849.”
Questo passo mi permette di intervenire sul suo modo di scrivere, accattivante, vivo, partecipato, entusiasmante, poetico in altre parole: è un poeta e conosce benissimo l’arte della parola che usa non solo in modo appropriato ma anche in modo efficace e convincente. Ogni notizia che riporta nella sua cronaca è un piccolo capolavoro di sintesi e un meraviglioso mondo che ci fa conoscere magari una materia varia e momenti di vita quotidiana di cui abbiamo smarrito ogni significato. Ma ritorno alla sua Selva. Voglio ricordare quelle aride pagine e pagine e pagine (da pag. 64 a pag. 109) della Selva che ripetono semplici elenchi di nomi che a iniziare dal 1574 costituiscono i vari Capitoli Provinciali che si tennero fino al 1815 con l’elezione dei Provinciali e dei Definitori, con la fondazione dei vari Conventi Cappuccini della Provincia Siracusana, e con notizie riguardanti tutti questi Conventi che si fermano agli avvenimenti contemporanei al nostro Autore; notizie apparentemente aride che invece rappresentano la sintesi e una fonte inesauribile di conoscenza di tutte quelle problematiche che investirono la Famiglia Cappuccina Siracusana sin dal 1574 e fino agli inizi del 1800. Voglio ricordare le pagine dedicate al suo Convento e alla sua Chiesa di S. Francesco d’Assisi, importanti per ricostruirne la storia, la formazione e infine la perdita di tutto.
Voglio ricordare la storia delle altre Chiese di Palazzolo e la loro descrizione per dire che questa è la parte più conosciuta e che ha avuto e continua ad avere i suoi maggiori lettori tra gli studenti e gli storici dell’arte religiosa di Palazzolo; infatti rimane tuttora l’unico esempio di un’enciclopedia codificata delle nostre Chiese e le sue osservazioni e i suoi interventi meritano sempre rispetto, perché sono dettati da un Uomo che vuole onorare la sua terra. E non mi sento di dare alcun giudizio negativo, non altro perché comprendo la sua alta ispirazione morale e sociale; anch’io, nel mio difficile lavoro di catalogazione delle opere d’arte delle nostre Chiese, ho sempre tenuto conto e richiamato le pagine della Selva del Rev. Padre Giacinto Maria Farina, anche se spesso non le ho condivise e non le condivido tuttora.
E le pagine della Cronaca sono proprio una Selva di Notizie, cronaca che riprende la narrazione storica sin dagli anni più antichi risalenti al Medioevo, citando sempre le fonti cui attinge; ma soprattutto è particolarmente interessante e importante la cronaca dei tempi, che visse e racconta in prima persona, che ci permette di rivivere momenti della storia di Palazzolo che si intrecciano con i momenti della storia della Sicilia e dell’Italia; e abbiamo una storia diversa, una storia vissuta, una storia partecipata con sfaccettature che non pensavi di trovare in un personaggio voce narrante che ti coinvolge in episodi famosi, visti e rivissuti in un piccolo mondo periferico come quello di Palazzolo, talvolta con le meschinità grandiose della vita quotidiana.
E così posso dedicare una parte del mio intervento ai primi momenti drammatici della storia dell’Unità d’Italia vissuti a Palazzolo, da un palcoscenico speciale che è il Convento dei Padri Minori Cappuccini con i suoi Fratelli costretti a comportarsi in un certo modo, a parlare in un certo modo, a predicare in un certo modo; perché una parola fraintesa può portare a essere convocati dal Delegato per giustificare il loro operato. Sono momenti difficili: la Chiesa Palazzolese, ma tutta la Chiesa Siciliana in generale, sta vivendo un passaggio catastrofico; non che prima, sotto i Borboni, non ci fossero controlli, anzi c’erano, ed erano all’ordine del giorno; è cambiato il clima, c’è il pericolo del sospetto, cosa grave, che possano ancora esserci residui di fanatici borbonici tra gli Ecclesiastici, e ciò è pericoloso. Chi non accetta la nuova realtà politica è un sovversivo e non può essere tollerato. A pag. 754 il 2 Novembre 1862 il Rev. Padre Giacinto scrive la seguente nota:
“Oggi sono stato chiamato dal Delegato per essere stato accusato di Papalismo da dieci persone, perché nei Sabati di Maria Immacolata recitai una postina sul bene spirituale, e temporale della Chiesa. Ignoranti, io dissi bisogna essere questi spioni, e bisogna prima di denunciare, che comprendono la parola Chiesa, e ne facciano destinzione dallo Stato. Quando prego pel temporale della Chiesa, io prego per vostra sposa, i vostri figli acciò abbiano ricchezze, e salute …. prego per tutto il mondo, e lo stato Papale temporale non ci entra per nulla …. Il Delegato restò contento di questa spiegazione, e le cose morsero nel nascere. Io Fra Giacinto.”
E ancora a pag. 757. “1863. Visita domiciliare. 17 Ottobre. “Stamattina mentre io predicava nella nostra Chiesa il Sabato di Maria Immacolata, e moralizzava il racconto della Vita del P. Arcangelo della Scozia …. vedo entrare da una porta un Carrabiniere, e poi un altro dall’altra porta della Chiesa. Indi ne vedo entrar uno dalla porta dell’Altare Maggiore, e un altro dall’altra. Allora dissi tra me e me la cosa non è giusta: gatta mi cova. Tutta l’udienza si commosse: impallidì. Ed io ancora …. fra le altre cose, che mi confermavano nel male si era il soggetto della Predica, quantunque alieno, dalle menti esaltate potea esser interpetrato malignamente.
“Una combinazione pure aggiungeva peso al soprasalto: Eravamo giunto nel racconto: quando Arcangelo per aver istrutto sua Madre era cercato dai birri inglesi, che forte sostenevano coi loro Padroni l’Eresia in Inghilterra, e qui allora si cercava piantare, perciò pareva, che la mia predica iva contro i conàti italiani. Quasi tutti fecero riflesso. Ma io dicea mentre: Arcangelo era cercato dai soldati Inglesi, ma egli seppe scappare d’una porta secreta, e non si lasciò cogliere …. Tutti diceano. Ma il P. Giacinto non ha da dove fuggire.
“Io intanto proseguì con quella forza che mi dava Gesù Cristo la predica sin al fine: dissi lo stellario e scesi dal Pulpitino. Appena poggio pie’ sulla terra, che un amico mi disse: vedete che siete aspettato nel dormito’ da spie, carrabinieri, e Delegato, e dimandano di voi, e vi vogliono. Allora io non mi volli dar coi miei piedi nelle loro mani e me n’andai al Confessionile, mi pose la stola, e confessai. Appena avea detto le prime parole, ecco l’ambasciata. Uscite Pre Giacinto, che vi vuole il Delegato. Questa parola fu un fulmine per le genti, nella Chiesa vi fu un bisbiglio generale. Nel paese si dissero tante cose, vennero al Convento tante persone.
“Intanto il Delegato mi ordinò di aprirgli la stanza, che tosto si è fatto. Ivi giunto, e seduto dimanda i miei scritti, onde rivederli. Bisogna dissi tra me che stia qui qualche mese se vuol rivedere tutti i miei scritti. Dapprima gli consegnai un gran fascio di prediche, che con pazienza esamina, un occhio qui e l’altro qua …. Ma vedi quanto tempo per vedere almeno un duecento Prediche. Poi vide la mia Nazarena, e l’esaminò come meglio poté. Indi il mio Enchiridion, e vi volle più pazienza. Poi le carte volanti, lettere, poesie, memorie ec. In ultimo mi sfiorò tutti i libri, senza nulla trovare. Dopo i due tavolini, il letto, e tutti i buchi.
“Fatto ciò, si rivolse a me: sono stato mi disse incompensato per parte delle autorità fargli visita domestica per trovare una carta, che il vostro Provinciale vi ha mandato. Faccia pure, faccia, che non troverà mai cosa, che possa offendere alcuno. “Dopo aver frugato il tutto finalmente usci dalla stanza dopo due ore e forse più di ricerche. Indi si portò alla Biblioteca, e die’ una rivolta ai libri. Poin fine entrò nella stanza del Guardiano, là fu il miracolo. “Nella mia stanza trovò una lettera del Provinciale, che m’incaricava premurare quei poveri frati, che avevano sottoscritto l’indirizzo al Papa, acciò pensassero allo scioglimento della censura. Questa lettera gli fece arrugere la fronte, e digrignare i denti. Io compatì. Riflettendo quanto è grande su ciò l’ignoranza, e l’incuranza dei Secolari. Nel verbale egli non ni fece motto.”
Così il già famoso Padre Giacinto, le cui idee sono diverse, come sono diverse quelle di molti altri religiosi del tempo, viene controllato, riceve “visite” particolari durante le sue cerimonie religiose e soprattutto durante le sue prediche: e alla fine paga il suo attaccamento al suo abito cappuccino, sarà costretto al domicilio coatto e sarà mandato in esilio assieme al fratello Padre Venanzio Lantieri. A pag. 702 della Selva di Siracusa leggo:
1866 Ottobre. 26. Il domicilio coatto. Di P. Giacinto da Palaz. ex. Dif. Cap.o e P. Venanzio da ivi Capno. Eran le 21 del 26, ed il Sig. Delegato mandò a cercarmi da sua persona. Essendo io alla sua presenza, mi spiace disse, dovervi significare un officio del Prefetto di Siracusa, nel quale mi ordina d’intimarvi la partenza onde recarvi in Agosta, e pel 28 portarvi a domicilio coatto fuor dell’Isola. Non importa: io risposi: solo desidero sapere in che l’offesi, in che mancai a qualcuno della mia Patri, che feci contro il Governo? Quel ministro frugò un risposta, e non potendo trovarla restò in silenzio. Ed io col P. Venanzio da questa dovetti partire senza risposta, e senza mezzi.
27. La dimane. Palazzolo sempre devoto, amante della pietà ama molto i ministri del Signore per questo stesso, che dessi ministri son la fonte della S. Religione. Quindi non può così di facile comprendersi qual fosse il cordoglio, o l’ammutinamento nella dimani divulgatasi la partenza nostra. Le esibizioni contrari sono stati immensi, immensi i rifiuti, contentandomi del solo necessario pell’incognito viaggio. Non ò portato che 100 franchi e ne ò ritornato 60 dopo quel lungo viaggio per quelle parti in cui tutto si vende a caro prezzo, e per certo vi voleva più delle 100 lire, se non vi fossero state i danari della pensione.
A pag. 779 della Selva di Palazzolo trovo scritta la Memoria Del Domicilio Coatto.
“26 Ottobre 1866. Intimata dal Delegato la nostra partenza per Agosta per trovarci ivi nel giorno 27 alle ore 8 delle nostre partimmo clandestinamente, onde non commuovere il popolo: e dopo 14 ore di penoso viaggio fummo in Agosta. Ivi trovammo il popolo giulivo per l’avuta notizia della non partenza dei Frati. Ci portammo nel 27 Ott. in Siracusa, ove trovammo molti religiosi nella medesima rete. Mi presentai al Prefetto il Duca di Cesarò, il quale ascoltò con piacere le mie parole; indi dopo conosciuta la mia innoccenza disse: ma …. Ed io con quel ma lo lasciai, e mi portai in locanda masticando quel ma, che parea ora dolce, ora amaro. Finalmente dopo 14 giorni d’agonia tra il sì, e il no, ci dichiarò la partenza pella dimani giorno di S. Martino.
“11 Novembre 1866. Partenza. Il giorno di S. Martino viddi salpare sul Piroscafo 103 ex Frati di diversi ordini e comuni. Era un bel giorno. Si partì alle 9 antemerid. Alle 11 fummo in Agosta. Ivi pranzammo: ricevettimo altri 10 Frati, e partimmo n° 113 in tutto. Passammo lungi da Catania martoriata allora dal Colera. Aci Reale. Taormina, ove cominciò a sollevarsi un venticello, che per 3 ore ci afflisse. Alle 8 pomeridiane eravamo vicino Messina. Ella era ben luminata da fanali. Quella vista ci sollevò assai. Indi passammo il Faro cotanto rinomato. Scilla, e Caridde. Poi lasciammo a sinistra le isole Ioniche. A destra Nicotera, Tropea, e il Golfo S. Eufemia. Paola ci ricordò il suo gran Taumaturgo. Poi le altre coste del regno Napoletano. Alle 5 ante meridiane si vedea l’is. Capri, Isca, e Procida. Ponza. Gaeta. Civitavecchia, e le Romagne, indi Gianuti.”
“12. Alle 6 a. m. l’is. del Giglio, quelle delle Formiche, dell’Elba, ospizio un tempo di un grande caduto.
“Poi Piombino. Alle 7 l’is. Capraia a sinistra, le montagne della Corsica, l’isol. Gorgone. Alle 8 Livorno. Indi dopo lungo spazio di mare, entrammo nel golfo di Genova, e dopo 59 ore di viaggio il giorno 13 alle ore 9 pomeridiane siam giunti in Genova meglio assai illuminata di Messina.”
“E siccome il Vapore detto Napoli facea 12 miglia per ora, perciò p. 59 = 708. A cui si potranno aggiungere 9 miglia per 4 ore di vele in tutto da Siracusa a Genova miglia 717. “Restammo nel Porto di Genova 3 notti e due giorni in aspettazione di destino. Poi fummo divisi: a Torino 22. [] 22. Milano 22. Bergamo 14. Genova 11. Como 22.
“Da Genova a Como. 16 Novem. “Il di 16 Nov. partimmo dalla Piazza Cristoforo Colombo dov’è la sua Statua vera colossale, e magnifica, e suonavano le 5 a. sulla carrozza a vapore quando essa si movea dalla grande Stazione lunga circa 220 passi coverta di cristalli.
E così annotava le tappe del viaggio in treno da Genova a Milano e finalmente a Como:
“Dopo un 7 miglia fummo alla prima stazione detta Punta decima. A 15 al primo Tunnel, o monte forato: a 17 ad un altro. A 19 anco. A circa 26 ne passammo un altro in cui il vagò impiegò per passarlo colla medesima velocità circa 900 pulsazioni, o minuti secondi. Indi venne Dunzalla altra stazione e poi un Tunnel, poi un altro di 100 minuti. Poi l’isola del Cantone. Due piccoli paesi a destra, che sembravano due presepi. Un altro Tunnel: 190 minuti. Poi Argata. Serrovalle. Novi. Frigarolo che è abbondante di Cassia con muri a piloni di legno perché poca pietra, essendo la massima parte d’Italia pianissima, e senza pietre, onde molti fabricati di marmo, e alcuni di mattoni. Per dovunque passavamo altro non si vedea, che celsi.”
“Poi … poi … Poi Lodi. Locate. Rogaredo. Indi Milano mirabile pelle strade, Salone, Palazzi, e Duomo, ed altro, che spero descrivere al ritorno. In Milano pergiunti fummo dichiarati da quegli ufficiali per Palermitani, onde abbiam sofferto qualche disprezzo, e fummo costretti a respirare il cloro sotto pretesto d’infezione colerica, in cui alcuni restarono abbatti …. positivamente nella respirazione, tutti però offesi. Dopo un’ora partimmo: quelle campagne mi parvero più amene, e più coltivate, ed abbondanti di celsi mori, principale cespide d’Italia per la seteria. La macchina da Genova impiegò 7 ore, e mezza. Dopo tante notate stazioni. Indi passammo da Monza famosa per la sua Monaca abbondante di una specie di [Sabina] ben ordinati castagne ec. ove è un Tunnel di 60 m. Ivi solo vidi da circa 20 macchie di aranci.
“Da lì le grandi Alpi. Poi Soregno, Comnago …. Qui s’incontrano le prime montagnose campagne coverte di castagne. Alcuni uomini, e donne raccoglievano le foglie di castagne, e ne formavano alte biche. In un altro Tunnel. Eran le 22 delle nostre, e le 4 e ÷ francese, quando entrammo in Camerlata, aspettati da gente curiosa; ove ci obligarono a respirare il Cloro nuovamente. Indi sopra due Omnibus fummo portati a Como, ove entrammo tra le beffe e gli scherni. Ivi restammo dispiaciuti di quell’incontro tutti e 22 Sacerdoti, il giorno 16 Nov.e del 1866.
“pag. 782. Appena giunti, e presentati al Delegato fummo destinati in quattro locande, la mia chiamavasi Carozzi. Dopo pochi dì, onde farci cosa grata fummo trasportati tutti 22 in una sola detta: la Corona. Indi per farci cosa gratissima fummo situati in un bel palazzo, o casa di esercizi, chiamata: la Gibellina: e fu a dieci Dicembre. Per mobigliare la stessa il medesimo Vicario Capitolare cercò pelle case dei nobili la biancheria, ed altro. Ed io per comune desiderio mandai allo stesso in attestato di gratitudine, che egli accolse con piacere questo Sonetto
Salve, deh salve, e asilo di conforto
Deh salve, o requie dell’afflitto core!
Per gli esuli tu sei bramato porto
E degli esuli molci il gran dolore.
Sull’ali della fe’ il genio assorto
Del Sicofanta, che c’ispira orrore,
Ti contempla da lungi …. Eccol risorto,
Che spiega i vanni per l’eterno albore.
Ergesti, o Como, quel divino ostello:
E il famoso Delubro …. Oh mai non mora!
Ricovrasti l’affranto, e il trovatello.
E Plinio, e Volta ancor, che il mondo irrora,
Me non lice lodar notturno augello
Ma desio d’opre grandi è onore ancora.
E proprio in questi momenti difficili, di facile abbandono, trova l’occasione per dare un attestato di gratitudine inviando un Sonetto al Vicario Capitolare di Como. E compendia e riassume questi momenti in un’altra pagina della Selva. A pag. 803 intitola uno di questi momenti: Un addio a Como.
“Coronata finalmente di putenti fiori la fronte di qualche triste avversario, e quindi caduta la scure dell’umana giustizia su noi 113, indifesi ex Frati dalla Provincia della classica terra del divin Archimede, onde in coatto domicilio espiare la pena d’ignoto delitto, abbordammo il piroscafo li 11 Novembre dell’anno or ora caduto, e abbandonate le dolci riviere della ridente Aretusa, della Città del Sole, solcammo le onde alla volta d’un mistico, ed arcano cammino. “Dopo lo sciupìo di 1070 kilometri di via si fe’ sosta da noi sulle spiaggie dell’immortale Colombo. Rimasti ivi in quel posto per tre notti, e due giorni, con le mani in mano, come le mummie d’Eggitto, il dì 16 dell’indicato, fummo 22 riposti sopra una corriera a vapore, ed in poche ore divorammo la spazio da Genova, ad Alessandria, a Pavia, a Lodi, Milano, Camerlata sin a Como colla rapidità del baleno. “Ivi deposti assiderati dalle aure algenti delle Alpi aghiacciate, col cuore naufrago nella tristezza circa 1200 kilometri distanti dagli aviti focolari, chi sollevò dalle strettoie l’animo nostro scorato? La sillaba di Dio, che mai si cancella … “E qui bisogna pur dire, giacché, etiam fera beneficia sentiunt, quel tanto almeno, che non possa offendere la modestia di coloro, cui dobbiamo esser grati: fu la splendente virtù di quei, cui è concesso reggere il freno delle chiesiastiche, e politiche vicissitudini, che sparse su’ figli dello sconforto un nembo di fiori. “Consumata or la nostra degenza in questo asilo di attrattive, e surta del nostro ritorno coronata di rose bella l’aurora col cuore inebriato di teneri affetti enunciamo un’addio giammai perituro. “Accogli dunque col solito sorriso o Monsignor Vic. Gnle Capitolare D.n Ottavio Calcaterra, tu che più fiate desti all’infula santa il gran rifiuto, accogli un caldo addio e una grazia di azione per l’istancabile premura di sostenere il decoro di quegli unti del Signore, che sbalzati dall’avversa bufera eran ancorati nei dolci tuoi lidi. “Addio a quelle politiche potestà, che compatirono la nostra sciagura, accolsero con dolce sorriso i nostri lamenti, e lietarono le nostre sventure. “Addio agli animi cotanto entusiasti per noi …. Al popolo …. A Como …. O dolcissimo Como, o Regina dei colli, figlia del Lario, madre feconda d’infiniti eroi, e di quei due, che ammantarono di luce la republica del sapere, sollevando ardimentosi il triplice lembo dei tesori di cui è avara natura: Plinio, e Volta …. Vanne pure superba, che pelle tue glorie non suonerà mai dell’occaso l’ultima ora.
“Addio …. Noi lasciamo in te parte dei nostri affetti, e sollevando le pupille verso l’Arbitro delle cose pei figli tuoi, col Vate pietoso, compresi di gratitudine preghiamo.
“Del tuo celeste trono
Stendi gran Dio la mano
Dagli Signor perdono
Li benedici ancor
Sei buono
Sei pio.
Deh! donagli o Dio
Il tuo santo amor
Poi dagli la gloria
Del Cielo o Signor.”
Il tempo di ambientarsi e già nel mese di gennaio del 1867 è sulla via del ritorno: L’11 Gennaio è a Milano.
Di Milano la Selva conserva una stampa dell’Interno del Duomo del 1866, una stampa della facciata del Duomo e una stampa del Fianco del Duomo; e vede il Duomo con le sue Piramidi di Marmo, il Sepolcro di S. Carlo con la sua Cappella, il Palazzo Reale e le sue Statue, e soprattutto l’Ospedale ammirabile che accoglie tre mila ammalati, con il suo molino, la macelleria, la macchina di lavare la mobilia, la ghiacciaia, 18 farmacisti, la Via coperta di cristalli, il fiume e la Galleria. Il 12 Gennaio è a Genova e vede la Cattedrale, la Nunziatella indorata, la Chiesa e l’alta cupola di Carignano, il Cimitero con le sue statue sentimentali, la Statua di Cristoforo Colombo con l’America ai piedi, le 4 Statue delle Belle Arti, la Galleria sul Porto, e l’alta Lanterna. Il 13 Gennaio a Livorno, il 16 a Civitavecchia, il 17 a Roma. A pag. 797 descrive la sua visita della Città Eterna.
“Le mie cinque ore in Roma. “I miei compagni di domicilio per timore civile neppure vollero uscir dal vacò stanziato ivi alle mura della Santa Città. Io solo quindi ed il mio paesano P. Venanzio fecimo eccezione al sentimento universale. Sortimmo dalla Carrozza a Vapore, e tosto salimmo quella di cavalli, che colla velocità del vento fra turbini di neve, e di grandini volammo per le strade della città eterna. Ecco quel poco che noi viddimo spesso senza guardare”: E dà una breve ma chiara descrizione dei seguenti monumenti: Il Colosseo, il Tempio delle Vestali, le Mura, la Basilica di S. Paolo, la Basilica di S. Giovanni in Laterano, la Scala Santa, Santa Maria Maggiore, Castel S. Angelo, Piazza del Vaticano e la Chiesa di S. Pietro, con una spendida stampa di Piazza S. Pietro. Dal 18 al 22 Gennaio è a Napoli, e vede Napoli, il Palazzo Reale, il Sepolcro di Maria Cristina, il Camposanto e il Convento de’ Cappuccini, il Museo, la Villareale, il Camposanto vecchio, la Cattredale, le Chiese, l’Aguglia e la Statua di M.a Immaculata, vede certi usi per esempio le penitenti baciar le mani dopo la confessione al Confessore, vede Usar la Borsa sopracalice per canestrino nella Comunione, le donne ancor sentono messa in piedi, vede S. Maria la Nuova degli Osservanti, le belle campagne, il vulcano, e il porto.
Il 23 Gennaio alle ore 13 appare la Sicilia, con la Veduta dello Stretto della Lanterna, Della Palizzata, Della Cittadella, Della Cattredale e della Lettera, trascorre una notte pericolosa pella rottura della ruota del Vapore e per la tempesta. Il 24 Gennaio alle ore 2,30 arriva a Catania, alle ore 19 a Lentini; e finalmente alle ore 22 del 25 Gennaio 1867 giorno di S. Paolo dopo due mesi il Rev. P. Giacinto Maria Farina e il Rev. P. Venanzio Lantieri ritornano a Palazzolo. Ecco il suo racconto.
“25. O giorno di S. Paolo per Palazzolo. “Colla massima premura abbiamo celato la nostra venuta imminente, e clandestinamente siamo venuti da Buccheri, mentre si pensava venire da Siracusa. Pure vi fu nel popolo un commovimento, ed un brio generale, e il nostro arrivo ebbe troppo del grande: Ogni ceto, ogni sesso mostrava la gioia, che provava, e quel momento fu un secolo di letizia, che non può marcarsi con nessuna cifra. Le visite dei primi Signori, Clero, ec. i baciamano, gli amblessi, i baci durarono per più di 15 giorni. …”
È una descrizione puntuale, che segue tutte le tappe di questo lunghissimo viaggio di andata e di ritorno non privo di pericoli e di disavventure, ma per il nostro Padre Giacinto sarà un’occasione da prendere al volo, certo se avesse potuto sarebbe rimasto nella sua città per tutto quel tempo e magari spostarsi nel circondario per le sue ormai note Prediche, ma questa sarà un’esperienza che gli permetterà innanzi tutto di conoscere direttamente un mondo diverso, quel mondo lontano, quel mondo lontanissimo del Sublime Nord, in contrapposizione al Profondo Sud, quello stesso mondo del Nord descritto dal Manzoni nei suoi Promessi Sposi e che poté vivere durante la sua forzata dimora nella città di Como.
Il mio intervento di questa sera cade in un momento particolare: sono trascorsi duecento anni dalla nascita dell’autore della Selva, il Rev. Padre Giacinto Maria Farina, di questo nostro Grande Palazzolese, che ho voluto ricordare in modo semplice, perché innanzi tutto Fra Giacinto fu e rimase un Frate Cappuccino. È mio dovere ringraziare il Rev. Padre Emilio Messina, Rettore del Convento dei Padri Minori Cappuccini di Palazzolo Acreide, per la sua benevola disposizione e per avermi concesso di poter parlare in questa Sede.
Domani per alcune ore sarà aperto un luogo tanto caro al nostro Padre Giacinto, luogo che è rimasto e rimane caro anche a noi che abitiamo oggi questa splendida Città di Palazzolo Acreide, luogo che è la Chiesa di S. Francesco d’Assisi, già Chiesa dei Cappuccini Vecchi: e ringrazio il Rev. Parroco Padre Angelo Caligiore che permette che questa Chiesa possa essere visitata.
Corrado Allegra
Chiesa del Sacro Cuore – Palazzolo Acreide 7 Maggio 2016