Ricordo di Paolo De Benedetti: un Maestro anche quando taceva.
PAOLO: UN MAESTRO ANCHE QUANDO TACEVA.
di Donatella Gnetti
La pascoliana “poesia delle piccole cose”, che emerge dalle seguenti magistrali immagini di Donatella Gnetti in memoria di Paolo De Benedetti, suscita il rimpianto in chi come me, fra Noto ed Asti spesso vivendo, non lo ha conosciuto pur potendo e, tuttavia, ben ci stimola a meglio e presto “frequentare” le foscoliane “egregie cose” d’un Protagonista nella Cultura Astigiana del nostro tempo! Biagio Iacono
Sono molte le persone che avrebbero più titoli di chi scrive per ricordare Paolo De Benedetti: i familiari, i collaboratori, gli allievi, le tante persone che hanno accompagnato la sua vita lunga e operosa. Non posso ascrivermi a nessuna di queste categorie: non sono stata allieva di Paolo, anche se per anni ho pensato di frequentare i corsi di ebraico che teneva al Cepros il sabato mattina; però ho sempre rimandato finché anche questo progetto è diventato un altro grano nel lungo rosario delle occasioni perdute. E tuttavia, anche se non in modo canonico, sento di essere stata sua allieva, perché Paolo era maestro, sempre: in cattedra o nella vita e nelle relazioni di ogni giorno, insegnava suo malgrado, con la parola e con gli atteggiamenti, con le scelte e perfino con i silenzi, cui spesso ricorreva per esprimere un dissenso che traeva forza proprio dal modo sommesso con il quale veniva dichiarato.
Per questo sento di poter dire che ho imparato molto da lui. Tra le molte cose che ho imparato c’è l’importanza del ricordo, lo Zakhor, l’imperativo a ricordare che è pilastro fondativo per l’identità del popolo ebraico. In tante occasioni dedicate a qualcuno che ci aveva lasciato l’ho sentito ripetere che non muore davvero chi viene ricordato; pertanto anche questo ricordo di Paolo si pone nel segno del suo insegnamento. Ma c’è anche un altro insegnamento di Paolo che vorrei qui ricordare, quello che chiamerei il suo “approccio filologico” al tema. Le occasioni nelle quali ho avuto il piacere di ascoltarlo sono state davvero tante, perché Paolo era generosissimo di sé e non si sottraeva mai a chi richiedeva la sua presenza: poteva incontrare un giorno a Milano il cardinal Martini e il giorno successivo venire in biblioteca ad Asti per parlare di editoria ai ragazzi delle scuole superiori, sapeva passare con disinvoltura dal mondo accademico al piccolo mondo provinciale di Asti e riservare ad ogni contesto la stessa attenzione, senza alcuna gerarchia d’importanza.
Ma torniamo all’approccio filologico: molto spesso Paolo per affrontare un argomento traeva spunto da una parola ebraica ad esso collegata, di cui spiegava le radici e le diverse valenze per poi arrivare al tema di interesse. È qualcosa di questo genere che mi propongo di fare, non partendo dall’ebraico ma dal latino: commemorare Paolo significa cum memorare, ricordare insieme, condividere i ricordi. Per fare questo è necessario superare un certo naturale riserbo ed anche un sottile disagio nei confronti dei tanti che, come dicevo all’inizio, avrebbero maggior titolo di me in questo ruolo. Ma se pensiamo ad una ricostruzione collettiva, ad un’opera condivisa allora è evidente che ogni ricordo è utile allo scopo e trova la sua naturale collocazione. Il problema è semmai nella scelta: sono stata amica di Paolo per trent’anni, provando stima e affetto per l’uomo e sconfinata ammirazione per lo studioso. Quali ricordi scegliere e condividere tra i tanti che sovvengono alla memoria?
Forse comincerei con le cene per la Pasqua ebraica organizzate al Cepros, alle quali fui invitata più volte: sentire Paolo leggere l’Haggada, riflettere sul fatto che queste parole risuonano da secoli in tutto il mondo significava toccare con mano le stesse radici del popolo ebraico. E sentirlo leggere in fretta, spiegando che il diavolo può intrufolarsi tra parole lette troppo lentamente, dava anche la misura dell’intreccio tra storia e tradizione che nei secoli è venuto a rafforzare queste radici. Ma un’altra immagine mi sovviene: Paolo che trae dalla tasca e calza la kippah bianca e celeste entrando al cimitero ebraico, dove mi ha accompagnata per leggere alcune epigrafi utili a una mia ricerca. Un gesto spontaneo e naturale per lui, in equilibrio tra due fedi e due culture e perfettamente a proprio agio in entrambe. E ancora: Paolo che esce dalla libreria dove ha appena comprato una copia de I giorni del mondo, di cui ha curato edizione e pubblicazione. Perché Paolo, l’uomo dei libri, era – per così dire – un pessimo bibliotecario: sapeva perfettamente quali libri possedeva, ma non dove fossero, se ad Asti o a Milano, se li avesse prestati o regalati e quindi finiva per ricomprare libri che già possedeva, persino i suoi stessi volumi perché questo – diceva – restava il metodo più veloce per averli a disposizione quando ne aveva bisogno. Addusse questa sua “disorganizzazione” quale pretesto per rifiutare la presidenza della biblioteca, che gli fu offerta nei primi anni Novanta: si schermì dicendo che non si sentiva in grado di essere presidente neppure della sua cameretta. In realtà non sentiva alcuna propensione per l’attività politica, preferendo devolvere tutto il suo interesse agli studi, alla riflessione teologica e all’insegnamento.
Altro ricordo: Paolo in partenza alla stazione ferroviaria di Asti. È stato un viaggiatore instancabile, capace di partire da Asti il lunedì per andare a fare lezione a Trento, fermarsi un giorno a Milano e ripartire per Urbino, fare una presentazione a Firenze e poi rientrare al “Marino” venerdì sera, in tempo per tenere le lezioni di ebraico al Cepros il sabato mattina e pronto a riprendere il tour il lunedì successivo. E questo per molti anni, senza apparentemente sentire il peso dell’età e pronto comunque ad incastrare, segnandolo nella sua agendina, ogni ulteriore appuntamento ed impegno, cui proprio non sapeva sottrarsi, convinto che fosse una sorta di imperativo morale rendersi disponibile ad ogni richiesta di partecipazione che gli venisse rivolta. Negli anni Paolo De Benedetti ha regalato alla Biblioteca di Asti tantissimi volumi: ricordo i viaggi in auto al “Marino”, da cui tornavo con il bagagliaio stipato di scatoloni pieni di libri, tante edizioni di pregio, da Franco Maria Ricci ai volumi d’arte, che oggi costituiscono il fondo De Benedetti della Biblioteca. E ricordo che al “Marino” trovavo i veri padroni di casa, i gatti: signori assoluti, girovagavano alteri e indifferenti in casa e in giardino, un po’ sospettosi nei confronti degli estranei, ma sempre accompagnati dal sorriso affettuoso di Paolo: perché Paolo amava gli animali al punto di elaborare per loro una specifica teologia, ma aveva per i gatti un’attenzione e un amore particolare, che trapelavano nella tenerezza con la quale li guardava, nel sorriso che riservava a loro. Il sorriso di Paolo si accompagna nel ricordo al suo modo particolare di salutare gli amici: non un gesto educato, appena accennato e un po’ ritroso, ma due baci sonori sulle guance, un saluto pieno di calore, accompagnato da un “Ciau”, questo sì molto piemontese, che le lunghe permanenze a Milano non avevano minimamente intaccato. È con questa immagine che voglio chiudere il mio ricordo di Paolo, fatto di piccole tessere che, insieme ai ricordi di molti altri amici, ne ricompongono un ritratto a mosaico. E ricordare insieme può servire – forse – a stemperare il senso di perdita che ci accompagna da quando Paolo non è più con noi.
Donatella Gnetti
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NOTA BENE: QUESTO ARTICOLO E’ TRATTO DALLA RIVISTA ONLINE:
Reg. Trib. di Asti n. 1373/14 del 20.10. 2014 – Direttore Responsabile Maurizio Scordino