Enzo Papa: Rileggere Sebastiano Addamo.
RILEGGERE SEBASTIANO ADDAMO
di Enzo Papa
Lo conoscevo da quand’ero poco più che un ragazzo. Nel 1963 arrivò in libreria un suo libro di racconti che si titolava “Violetta”. Sapere che a Lentini c’era uno scrittore, un giovane professore di filosofia che pubblicava con Mondadori, era per noi giovani, ambiziosi incapricciati di cose letterarie, motivo di curiosità e di interesse.
Da allora lo conobbi. E devo dire che da allora ho sempre goduto della sua amicizia e della sua stima, sempre costantemente ricambiata e manifestata, per cui i nostri rapporti sono stati sempre felicissimi. Da lui ho sempre avuto suggerimenti e consigli, non solo di cose letterarie, ma anche, diciamo così, professionali, di quella professione cioè che ci forniva il pane quotidiano.
Fu lui, Preside del Liceo classico di Lentini, ad invogliarmi, citandomi il cosiddetto principio di Peter, a partecipare, nel 1979, al concorso a Preside; a lui dedicai il mio libro di traduzioni da Catullo (“Il fiore del Liber”, 1980) che egli stesso ufficialmente presentò in una memorabile serata; fu lui a scrivere un breve saggio sul mio romanzo “La città dei fratelli”, pubblicato in volume a cura di Sarah Zappulla Muscarà (“Narratori siciliani del secondo dopoguerra”, 1990); fu lui uno dei collaboratori, insieme a Sciascia, Consolo, Bonaviri, Freni, Bufalino e altri, della rivista “Laboratorio” da me fondata e diretta, dove pubblicava interventi che lasciavano il segno; e fui io a presentare a Siracusa, appena uscita da Sellerio, la più dolce, la più toccante delle sue narrazioni, “Le abitudini e l’assenza”, parti della quale erano state anticipate sulla rivista “Nuovi Argomenti”.
Si diceva di lui che avesse un brutto carattere: scostante, sempre critico, a volte offensivo. La verità è che, di profondissima cultura, s’era fatto, come tutti, una sua idea del mondo e della vita, quindi della cultura e della letteratura; cosa che non gli consentiva di sopportare la mediocrità, la stupidità, l’incompetenza, la presunzione, né i compromessi. Era, piuttosto, intransigente. Alla Vittorini. Non scendeva mai a compromessi, anche a costo di perdere, di restare sconfitto; era sempre se stesso, severo con sé e di conseguenza severo con gli altri. Ma non sempre aveva torto, anzi spesso aveva ragione, il tempo gli dava ragione. Non aveva peli sulla lingua (né sulla penna), interpellato manifestava sempre coerentemente il suo pensiero, esprimendo giudizi ed opinioni che magari potevano ferire.
Ricordo una simpatica schermaglia sul fascismo, sui rapporti col fascismo tra lui (nato nel 1925) e il concittadino e coetaneo (nato nel 1924) Manlio Sgalambro, filosofo, in un ristorante siracusano. Eravamo andati a cena, dopo la presentazione di “Le abitudini e l’assenza”. Sgalambro (che aveva appena pubblicato da Adelphi “La morte del sole”, 1982), era venuto insieme ad Addamo ricordavano entrambi l’adolescenza e la prima giovinezza a Lentini, i balilla e gli avanguardisti, le sfilate e i saggi ginnici, le adunate del sabato, le divise e il fez, la Gioventù Italiana dl Littorio, scherzosamente si pizzicavano e si accusavano a vicenda. Addamo diceva quel che aveva da dire senza reticenza, a volte con forti affermazioni temperate dal tono ironico e scherzoso. Tuttavia forti. Come forti furono i suoi giudizi sulle “Signore in giallo” in un articolo apparso sulla pagina culturale del nostro quotidiano “La Sicilia” del 7 febbraio 1993, in cui ferocemente se la prendeva non solo con le signore cinquantenni che si danno alla scrittura non sapendo che altro fare, ma con tutti coloro che, non avendo proprio nulla da dire, scrivono solo per esigenze di mercato, pensando la letteratura come “ un’appetitosa raccolta di ghiande”, facile premonizione, tuttavia, di quel che oggi accade con chi delle ghiande del mercato letterario sa ben nutrirsi.
Diceva di sé che non era arrivato ai vertici, che era rimasto “ai margini”, che era “uno scrittore di insuccesso” perché nelle sue opere non si era mai occupato di mafia. Così almeno aveva dichiarato in un’intervista a Keito Klippensteen per un rotocalco giapponese (“Impression Gold”, giugno-luglio 1992). Anche questa è affermazione forte, che non è solo un giudizio, ma indubbiamente manifesta una sorta di risentimento, e anche di accusa. Probabilmente avrebbe voluto dire che non era e non voleva essere uno scrittore siciliano alla moda, perché diverso da quello in auge era il concetto di letteratura che aveva, diversa la funzione che ad essa attribuiva.
Apparteneva ad una razza di scrittori che mi pare vada in estinzione. Voglio dire di quegli scrittori che non si fermano alla superficie, all’appena visibile, ma che sanno illuminare il buio delle profondità e portarlo a livello di coscienza. Di quegli scrittori che vivono appartati, mai contenti di sé e sempre alla ricerca di qualcos’altro, perché la ricerca dei veri scrittori è senza fine; di quegli scrittori le cui opere lasciano tracce profonde e indelebili sul ceffo bistrato della produzione letteraria, che sanno rivelare i costati del cielo e della terra e smatassare i bandoli della nostra esistenza.
La sua formazione filosofica è stata linfa vitale della sua produzione letteraria, certamente atipica nel panorama letterario del nostro tempo. Scrittore-filosofo, saggista e critico, poeta, Sebastiano Addamo resta un caso nella coscienza di tutti noi. Il suo isolamento, la sua marginalità, accentuatasi negli ultimi anni dopo il pensionamento e il suo trasferimento a Catania (la città dove lui, lentinese, era nato e dove contava di poter meglio lavorare) e non soltanto per le sue condizioni di salute, non era, probabilmente, una sua vocazione o una sua scelta; probabilmente non abbiamo saputo ben comprenderlo, non abbiamo saputo leggere bene la sua opera, i suoi messaggi, non l’abbiamo capito fino in fondo.
Ora che non c’è più, che s’è fatto ombra iridescente e tremula, ci resta una sorta di rimorso, di stringimento dell’animo, non solo perché non lo abbiamo frequentato nei suoi ultimi anni catanesi, piuttosto perché lo abbiamo quasi dimenticato. La sua opera non merita affatto l’oblìo, Anzi, ora che è intoccabile e definitiva, merita di essere rivisitata con animo sgombro da pregiudizi per darle il posto che merita, come più volte e in più occasioni ha affermato Nicolò Mineo. E’ un dovere di tutti coloro che si occupano di letteratura, dei critici e degli studiosi che sanno mettere ordine nel disordinato nostro panorama letterario.
Enzo Papa
NOTA BENE: IL TESTO DI CUI SOPRA E’ TRATTO DAL QUOTIDIANO LA SICILIA DI CATANIA,
CHE LO HA PUBBLICATO DOMENICA 26 AGOSTO 2018 NELLA PAGINA DI CULTURA.