Vittorini, quel fatidico 1938 e le leggi razziali.
Vittorini, quel fatidico 1938 e le leggi razziali
di Enzo Papa
Per Elio Vittorini il 1938 è un anno assai importante. Ha trent’anni, vive a Firenze e già medita di trasferirsi a Milano, ha già al suo attivo alcune importanti pubblicazioni, traduce dall’ inglese (con l’aiuto di Lucia Morpurgo Rodocanachi), insomma comincia ad essere una figura di primo piano nella repubblica letteraria. “Solaria”, la rivista fiorentina dove egli ha già pubblicato importanti testi e, tra gli altri, a puntate, “Il garofano rosso”, cessa le pubblicazioni nel 1936; e già da gennaio 1937 Alessandro Bonsanti, che era stato l’ultimo direttore di “Solaria” dal 1930 alla cessazione, pubblica il primo numero della sua rivista trimestrale “Letteratura”, considerata erede di “Solaria”, a cui Vittorini collabora fin dal primo numero. E proprio su “Letteratura” dall’aprile del 1938 all’aprile del 1939 Vittorini pubblica a puntate “Conversazione in Sicilia”, romanzo iniziato nel settembre 1937.
Ma, mentre Vittorini scrive e pubblica il suo romanzo lirico, in Italia gravi fatti sconvolgono il tessuto sociale e culturale della nazione. E’ strisciante, infatti, un clima antiebraico che lentamente pervade ogni strato sociale, soprattutto per merito (o per causa) del Ministro fascista della propaganda (Sì, il fascismo aveva un Ministero per la stampa e la propaganda, istituito già nel 1935!). Mi raccontava Corrado Sofia, che frequentava la redazione del quotidiano romano “Il Tevere” diretto dal siciliano Telesio Interlandi (di Chiaramonte Gulfi), che all’inizio dell’estate 1938 circolava la notizia che Mussolini meditava di dar vita ad una rivista in difesa della razza italiana. “Chissà chi potrà essere mai quel fesso che vorrà dirigerla”, avrebbe detto Interlandi. Da lì a poco arrivò una telefonata da Palazzo Venezia: il Duce voleva vedere Interlandi. Al ritorno Interlandi disse ai redattori: “Quel cretino sono io”. Il 5 agosto uscì il primo numero della famigerata “La difesa della razza”, che curò per ben 117 numeri, fino al 20 giugno 1943. Segretario di redazione era Giorgio Almirante. Tra gli altri collaboratori anche Alfredo Mezio, l’amico siracusano di Vittorini coprotagonista di “Il garofano rosso”.
Ebbene, il 1938 segna un discrimine tra il prima, tra quel che si covava e serpeggiava, e il dopo, con le sue tragiche conseguenze che tutti conosciamo. In questo clima pregno di imbecille odio, di disgregamento sociale, di quella cieca forza governata dalla stupidità che il 5 settembre vedrà promulgare le leggi razziali, Vittorini avvìa la sua “Conversazione” perché preda di “astratti furori … per il genere umano perduto”. Si è detto che “teneva il capo chino” per via della guerra di Spagna. Ma io mi sono sempre chiesto: come reagì Vittorini, il libertario Vittorini, l’anarchico propugnatore della libertà individuale, l’antifascista che affermava di essere già diventato dal 1936? Credo di aver letto tutta la sua opera e sono certo di dire che Vittorini ignora le leggi razziali, non parla mai di ebrei non solo nella sua produzione letteraria, ma anche nei suoi interventi critici e nelle lettere. Mai una parola spesa per gli ebrei e per la disastrosa situazione creatasi a causa delle leggi razziali, mai un cenno di solidarietà con quegli intellettuali che preferivano l’esilio.
Come giustificare tale atteggiamento? E’ possibile che un intellettuale del suo calibro, un uomo che dice di avvertire su di sé tutto il dolore del mondo resti indifferente di fronte a quella immane tragedia? E noi che amiamo la sua opera, che lo riteniamo per tanti aspetti uno dei più grandi maestri del Novecento letterario, non solo italiano, cosa dobbiamo pensare? Vive egli “la quiete nella non speranza”, come scrive in “Conversazione”? E’ una quiete che sfocia nell’indifferenza? O che altro? E’ questo un momento e un aspetto della sua personalità non ancora sufficientemente indagato, a cui bisogna dare delle risposte. E che dire, inoltre, che successivamente, nella sua qualità di consulente einaudiano, rifiutò ogni pubblicazione che riguardasse i campi di concentramento, cosa che fece anche il consulente Cesare Pavese rifiutando “Se questo è un uomo” di Primo Levi?
A complicare ulteriormente le cose c’è il Convegno di Weimar. Di che si tratta? Joseph Goebbles, il ministro del Terzo Reich, pensò di radunare in convegno a Weimar, in più tornate a partire dal 1941, i nomi più in vista tra gli intellettuali europei non ostili al nazismo. Alla tornata dell’ottobre 1942 partecipò una delegazione italiana di cui facevano parte Emilio Cecchi, Enrico Falqui, Antonio Baldini e tra i giovani Giaime Pintor (inviato di “Primato”) ed Elio Vittorini. Non si sarebbe saputo nulla di tale partecipazione, se nel 1950 uno studioso, Valentino Gerratana, non avesse pubblicato il resoconto “Scrittori a Weimar” che Giaime Pintor aveva scritto per “Primato”, che venne rifiutato e che rimase tra le sue carte. Il quel resoconto, e solo in esso, si fa riferimento alla partecipazione di Vittorini a quel Convegno.
Alla pubblicazione, che faceva parte di un’antologia di scritti di Pintor, Vittorini, preoccupato, scrisse testualmente a Gerratana: “ Indubbiamente io ne avrò dei fastidi, come ne avrà la memoria di Giaime. Vale la pena di tali fastidi?”. Vittorini, come ha scritto Mirella Serri, ha cercato in vari modi di giustificare la sua presenza al convegno di propaganda nazista, affermando anche che era andato “mosso da interessi esclusivamente letterari”, vantando inoltre “di aver messo in atto strategie antifasciste non salutando “romanamente” gli inni che venivano eseguiti nella cornice delle svastiche e delle aquile imperiali”;
e riflettendo sull’articolo di Vittorini “Una nuova cultura” che apre il primo numero del “Politecnico”, tra l’altro la studiosa dice : “Prendendo atto che la cultura, fino a quel momento, si è rivelata imbelle e vergognosamente impotente di fronte alle più gravi atrocità, Vittorini, direttore del “Politecnico”, addita i campi di concentramento, parla di sofferenze di bambini, ma non dice mai chiaramente chi sono state le vittime. Evita di parlare di olocausto, non nomina mai la parola “ebrei”, mentre evoca genericamente e confusamente la follia della guerra”.
ENZO PAPA