I Siciliani nel giudizio di Cicerone
I Siciliani nel giudizio di Cicerone.
Cicerone era abilissimo nel cogliere il lato comico e ridicolo delle cose e degli uomini, sempre però con finezza e con arguzia. Era, insomma, un grande umorista. Basterebbe a dimostrarlo la fulminante definizione che dette di Curione, l’uomo che il I gennaio del 49 portò in senato la lettera contenente le condizioni di Cesare e che di fatto apri la guerra civile con Pompeo. Ora, per Cicerone, Curione era “ingeniosissime nequam”, quel che si dice “una geniale nullità”. Forse non era così, ma la battuta è formidabile. Non per niente nel De oratore, che è del 55, ma è ambientato nel 91, dedicò un’ intera sezione del II libro (54, 216- 71, 291) alla trattazione del ridicolo, l’unica dell’antichità, essendo andati perduti i trattati di Aristotele e di Teofrasto, affidandone l’esposizione a Giulio Cesare Strabone Vopisco, abile e spiritoso oratore, morto per vendetta di Mario nell’87. Non sorprende, quindi, che egli apprezzasse apertamente questa qualità, che ebbe l’opportunità di sperimentare personalmente a più riprese nei Siciliani (Siculi), e ne lasciasse varie testimonianze nei suoi scritti.
Al capitolo VIII del I libro delle Tuscolane, il de morte contemnenda, completato nel maggio del 44, in cui si discute e si afferma che la morte non è che un trapasso da uno stato all’altro e non costituisce un’infelicità, il Magister (o Marco in alcuni mss.) fa notare all’auditor (o Attico) che la tesi da lui sostenuta sembra riproporre la posizione di Epicarmo, che è un uomo intelligente, acuto e spiritoso “come possiamo aspettarci da un Siciliano” «Sed tu mihi videris Epicharmi, acuti nec insulsi hominis, ut Siculi, sententiam sequi». In latino il giudizio appare ancora più positivo in virtù della litote.
Poi, alla richiesta un po’ pressante dell’auditor, del discepolo diciamo, cita traducendolo in latino un tetrametro trocaico del poeta: «Emori nolo, sed me esse mortuum nihili aestimo», «Non voglio morire, ma di essere morto non m’importa nulla». Il verso latino è probabilmente la traduzione di un verso citato in maniera incompleta da Sesto Empirico, adv Mathem. I 273, che corrisponde al fr. 247 Kaibel, 237 Olivieri, e che con l’integrazione di Sauppe (una delle molte) suona «morire non mi piace, di essere morto non m’importa nulla». Qualcosa di simile si trova negli Eraclidi di Euripide v. 1016. La battuta, seria e spiritosa ad un tempo, fa includere Epicarmo nel novero dei filosofi che si sono interessati al problema della morte, ma mette anche in luce la sua abilità nel motto di spirito, cosa non strana dato il suo mestiere, ma che Cicerone lega al suo essere greco e siculo. L’interlocutore non può non convenire e afferma “Iam adgnosco Graecum” che significa: ora riconosco lo spirito del poeta greco.
In questo breve scambio di battute appare chiaro come Cicerone ritrovasse in Epicarmo una caratteristica a lui ben nota dei Siculi, cioè l’intelligenza vivace, il brio e lo spirito arguto. La storia era iniziata trenta anni prima, nel 75, quando Cicerone esercitò la pretura in Sicilia con base a Lilibeo e si comportò in maniera molto onesta e molto lontana dalle consuetudini predatorie degli amministratori romani. I rapporti con i Siciliani si consolidarono cinque anni dopo, nel 70, quando egli ebbe dagli stessi l’incarico di difenderli nel processo per concussione contro il pretore Gaio Verre. In cinquanta giorni la percorse tutta alla ricerca di prove e di testimonianze che inchiodassero colui che aveva vessato i Siciliani e non solo. Il risultato di quell’inchiesta furono le Verrine. In questo grande monumento dell’oratoria giovanile e del coraggio di Cicerone, malgrado parte della critica voglia sottovalutare sia l’importanza politica del processo sia i rischi che Cicerone correva, già troviamo attestazioni di questo giudizio che l’oratore aveva maturato. Subito, nella In Quintum Caecilium divinatio, l’unica orazione a essere stata pronunziata contro Verre (20 gennaio del 70), insieme all’actio I, all’incirca alle tre del pomeriggio del 5 agosto (in realtà, con la riforma giuliana, il 19 di luglio), al paragrafo 28 l’oratore, scagliandosi contro Quinto Cecilio Nigro, sospettato, fra l’altro, secondo Plutarco, di avere abbracciato la causa dei Giudei, ha buon gioco nel dimostrare che il poco raccomandabile personaggio, questore e amico di Verre e compagno di ruberie, richiedeva per sé l’incarico dell’accusa per evidenti motivi, per sottrarre l’accusa a Cicerone e favorire Verre. Dice Cicerone:«Certo quelli, gente oltremodo acuta e sospettosa (genus nimis acutum et suspiciosum), non credono che tu voglia portare qua dalla Sicilia documenti contro Verre, anzi, poiché negli stessi documenti è registrata la tua pretura e la tua questura, sospettano che tu voglia portarli via dalla Sicilia». Cicerone coglie e testimonia l’acutezza e la sospettosità, ma in verità nel caso in specie non ci voleva proprio una gran carica di sospettosità per pensare male di Cecilio, che fra l’altro era, purtroppo, siciliano di nascita, domo siculus, come dice Asconio Pediano. La valenza di suspiciosum, che pur coglie nel segno, è così un po’ depotenziata, diventa quasi un’osservazione bonaria, per quanto veritiera.
Nelle stesse Verrine, mai pronunziate in tribunale dopo la fuga di Verre a Marsiglia, dove per 27 anni avrebbe gustato le prelibate triglie di quella città e dove nel 43 l’avrebbe raggiunto implacabile la mano di Antonio, incontriamo altri due luoghi in cui Cicerone accenna alle qualità dei Siciliani. Il primo si trova nell’ actio III, de frumento par. 20:«È una legge redatta evidentemente da chi non aveva altre entrate che questa, tanta è la minuziosa precisione con cui è stata scritta, da un Siciliano, tanta è la sua ingegnosità (ita acute ut Siculum), da un tiranno, tanta è la sua severità».
Nell’actio IV de signis, par. 96, abbiamo la più bella attestazione dell’umorismo siculo. Racconta l’oratore un’azione predatoria compiuta ad Agrigento al tempio di Ercole con l’intenzione di rubare la meravigliosa statua dell’eroe-dio che ivi si trovava. Ora, la banda di armati facente parte della cohors praetoria di Verre, al comando di Timarchide, non riuscì, pur dopo reiterati tentativi, a svellere la statua del eroe-dio e fu poi messa in fuga dagli Agrigentini accorsi in massa e in armi. Commentando l’accaduto e riferendo le osservazioni dei Siciliani, Cicerone dice:«Per quanto le cose vadano male, ai Siciliani non manca mai l’opportunità di uscirsene in qualche battuta spiritosa; a proposito di questa vicenda, per esempio, dicevano che nel novero delle fatiche d’Ercole occorreva includere questo spietato porco d’un Verre (Verrem) non meno famoso del cinghiale dell’ Erimanto» (terza fatica del figlio di Alcmena). La battuta sta nel fatto che Verres-is indica il porco maschio, così che la ulteriore fatica sarebbe il porco di Agrigento, oltre al cinghiale dell’ Erimanto. Anche Plutarco nella Vita Ciceronis, 7 ricorda questa battuta sul nome Verres, interpretando erroneamente il nome come “porco castrato”. Del resto nel corso dell’orazione Cicerone gioca spesso col nome Verres e il verbo verro che significa “spazzare”, in quanto il nome nei vari casi viene a coincidere, al nominativo con la seconda persona del futuro, al genitivo con il presente indicativo e all’ablativo con l’imperativo del verbo in questione.
Ancora, nel de oratore a cui Cicerone, come detto, lavora nel 55, nell’ambito della sezione sopra ricordata sul ridicolo (II cap. 57 par. 217), Giulio Cesare Strabone, iniziando il suo discorso, ricorda di non aver trovato negli scritti greci sul ridicolo insegnamenti teorici validi, sebbene non mancassero molte battute divertenti e molte arguzie dei Greci (ridicula et salsa multa Graecorum); infatti, dice, “in quel genere, Siculi, Rodi, Bizantini e, più di tutti, Attici sono molto lodati”. Il giudizio è qui generico e tuttavia è importante che i Siculi siano citati espressamente e non altre comunità greche, ad esempio gli Spartani, che, contrariamente a quanto si pensa, avevano anche le loro battute (forse involontariamente) umoristiche, come la esemplare e telegrafica risposta a Filippo di Macedonia, lodata e registrata da Tzetzes, che sta criticando addirittura Tucidide, incapace di rendere, a suo dire, la brachilogia spartana. Racconta, infatti, il nostro professore di retorica di Bisanzio che ad una lunga lettera di Filippo, piena di minacce e di ipotesi, che sostanzialmente diceva:«se invaderò la Laconia, vi sradicherò dalla vostra terra», gli Spartani risposero con una lettera in cui era semplicemente scritto «ai ka…», che in laconico significa:« se…». Infine nel Brutus, scritto tra il gennaio e l’aprile del 46, Cicerone parlando dell’origine della retorica e degli inventores, i siracusani Corace e Tisia, trova naturale e storicamente accertato che tale arte sia nata in Sicilia. Ad un certo punto (XII 46) afferma:«E così dice Aristotele che quando, cacciati i tiranni, poterono i cittadini per la prima volta rivendicare in giudizio le loro sostanze, allora soltanto, Corace e Tisia cominciarono a scrivere norme teoriche di eloquenza, a motivo del fatto che quel popolo è acuto e…» (quod esset acuta illa gens et * controversia natura). Appare evidente che Cicerone, fondandosi addirittura sull’autorità del fondatore del Peripato, ribadisca quello che sembra ormai un luogo comune, l’acutezza di giudizio dei Siciliani. Ma qui a noi interessa soprattutto la parte finale con asterisco, perché lì si annida un altro elemento del giudizio aristotelico -ciceroniano. Il testo dato è quello dell’edizione oxoniense di Wilkins, che riproduce il testo di tutti i codici. Delle varie correzioni la più semplice è correggere controversia e scrivere controversa natura = (acuta e) litigiosa per natura. Fra le altre ricordo et controversiis nata Jacobs = e nata per le controversie; et controversiis matura Martha= e pronta alle controversie. Da una segnalazione dell’amico Franzo Migliore apprendo che Leonardo Sciascia, fondandosi, credo, sull’affermazione della Divinatio e sul testo del Brutus dato da Jacobs, nel saggio L’ordine delle somiglianze definì i Siciliani gente acuta e sospettosa, nata per le controversie. Un giudizio, mi sembra, che volge forse in peius quelli di Cicerone, ma che comunque coglie nel segno. Nondimeno è importante che una caratteristica dei Siciliani diventi l’humus primigenia e feconda di questa grande arte,
Il quadro credo sia completo e il giudizio di Cicerone significativamente coerente, anche se un po’ topico. Tuttavia, accanto alla stima indiscussa e all’affetto, appare anche, specialmente nelle Verrine, un certo paternalismo di Cicerone, quasi fisiologico e ineliminabile, perché l’oratore parla sempre nella prospettiva del vincitore, del cives Romanus (sebbene gli avversari gli rinfacciassero che egli era semplicemente inquilinus urbis Romae), che guarda alla Sicilia come provincia e ai suoi abitanti come provinciales, insomma un po’ più che semplici stranieri e meno che cittadini di pieno diritto. Il romano è il patronus, il siculo il cliens. Ciò appare chiaro in due luoghi ciceroniani. Il primo lo troviamo in una lettera ad Attico, ad Att. XIV 12 del 22 aprile del 44, proprio mentre lavorava alle Tusculanae. Il passo è molto interessante:«Tu sai quale viva simpatia io abbia per i Siculi, come mi ritenga onorato di essere il loro patrono. Cesare ha fatto molto per essi, ed io non me ne rammarico certo, anche se non mi pareva il caso di concedere loro il diritto latino (ius Latii), quantunque … Ed eccoti ora Antonio che, dietro il compenso di una grossa somma, promulga una legge, come se fosse stata fatta votare nei comizi dal dittatore, che concede ai Siciliani la cittadinanza romana (legem..qua Siculi cives Romani), mentre, lui vivo, non se n’era mai parlato». Appare evidente come Cicerone non sia stato d’accordo nel 46 per la decisione cesariana in forza della quale i Siculi ottennero questa concessione giuridica intermedia tra quella di straniero e di cittadino romano e ora sia preoccupato, quasi traumatizzato dalla notizia che una presunta disposizione cesariana, riproposta da Antonio, conceda addirittura ai Siculi il privilegio della cittadinanza romana. Eppure la Sicilia era provincia romana da più di 160 anni.
Il secondo contiene un giudizio implicito sui Siracusani, ma estensivamente riferibile a tutti i Siculi, data l’importanza della città, inserito nel racconto della scoperta della tomba di Archimede. La storia (Tusculanae V 64-66) è nota e non la racconto. Ci interessa solo la conclusione. Cicerone è orgoglioso che sia stato lui a scoprire la tomba e aggiunge:«Così la più celebre città della Grecia e un tempo anche la più dotta, avrebbe ignorato il monumento del suo concittadino più geniale, se non ne fosse venuta a conoscenza ad opera di un uomo di Arpino». Come si vede, accanto alla venerazione per la grandezza e la bellezza di Siracusa, al suo tempo già antica, egli vuole stigmatizzare l’insensibilità, l’ignoranza e l’incuria dei Siracusani, colpevolmente dimentichi della loro storia e dei loro monumenti. Un giudizio un po’ duro, che non incrina la stima complessiva, ma che, senza polemiche, deve farci riflettere. Non credete?
Sebastiano Amato
Presidente della Società Siracusana di Storia Patria