Il fiore del futuro: i 50 anni di Country roads!
IL FIORE DEL FUTURO – Country roads ha 50 anni
di Paolo Anelli e Giovanni Amirante
« Country roads, take me home / To the place I belong / West Virginia mountain momma / Take me home country roads » (Strade di campagna, portatemi a casa / Nel posto al quale appartengo / la West Virginia mamma di montagna / Portatemi a casa strade di campagna). 30 dicembre 1970. John Denver è in concerto al Cellar Door di Washington; tra poche ore spegnerà ventotto candeline. Dietro le quinte, Bill Danoff e Mary “Taffy” Nivert forse fumano con le gambe dritte sul tavolino. Quando John li chiama sul palco, la mezzanotte è già scoccata da un po’. Taffy brandisce un foglio con le parole della canzone scritta insieme, perché nessuno dei tre la ricorda ancora a memoria. Eppure, la standing ovation è tra le più lunghe che la storia del locale ricordi. Country roads: quasi una preghiera ecologica per propiziare un nostos sul manto stradale. Verso la terra amata.
Dietro la genesi di questa pietra miliare del folk americano si cela un fatto curioso. Country roads è diventata – sin da subito – un inno della West Virginia e un fattore aggregante nella vita sportiva dello Stato: cantata insieme al proprio pubblico – one mission one team – dalle squadre di football e di basket. Ebbene, nessuno dei tre autori, all’altezza di quel trenta dicembre di mezzo secolo fa, aveva mai messo piede nell’Almost Heaven, il “quasi Paradiso” di quelle montagne. E allora, come interpretare una delle canzoni-simbolo del ritorno a casa? Se sfumano le coordinate del nostos, anche l’algos perde un po’ della sua forza?
Cremona 2020 – « E amerai il tuo prossimo come te stesso »: la parabola del buon Samaritano era la risposta che il Cristo dava alla domanda provocatoria di un dottore della legge: “E chi è il mio prossimo?”. A soccorrere l’uomo, aggredito da ladroni quasi a morte, non si erano fermati né un sacerdote né un levita, giudei ritenuti molto religiosi, ma ne ebbe compassione un samaritano, popolo che pur vivendo in terra d’Israele era odiato dai giudei.
Si capisce dal nome, Samaritan’s Purse, quale sia la mission di una Ong del North Carolina, e quali cose contenga la loro Borsa, quella degli ottantacinque medici e infermieri che il 17 marzo scorso sono arrivati per allestire in tre giorni un ospedale da campo, con sessantotto posti letto, a Cremona, una delle città italiane più devastate dal covid-19 (nel mese di marzo, nella città lombarda, capoluogo della provincia italiana con il maggior numero di contagi, il tasso di decessi è stato pari al 391%, inferiore solo a quello di Bergamo). Prima di ripartire, dopo cinquanta giorni di lavoro, i “samaritani”, che sono canadesi, australiani, tedeschi e inglesi, hanno raccolto le lettere di gratitudine lasciate dalle famiglie dei loro assistiti. « Essere stati padri e figli di quei pazienti, che quando entravano erano soli », è stata questa, dice uno di loro, la sfida più grande.
Mentre se ne vanno, all’applauso che li accompagna dai piani alti della terapia intensiva dell’Ospedale Maggiore, si unisce il direttore sanitario che, chitarra in mano, intona Take me home, Country Roads di John Denver. Portano a casa le lettere commosse di quei familiari, ma anche il dolore che hanno vissuto: « Abbiamo incrociato sguardi che chiedevano aiuto ». Tra queste storie, quella di Claudio, 91 anni, un guarito già a casa, al quale quattro delle sue infermiere hanno scritto: « Grazie per essere stato il padre e il nonno della quarta tenda, ti porteremo nel cuore ».
In calce, il motto del gruppo: One team, one mission. One mission, one team. Venuti da paesi lontani, e diversi, tornano ciascuno alla propria home i “samaritani” accorsi a Cremona. Se ne vanno canticchiando la canzone simbolo del ritorno a casa, quella che inizialmente portava il nome greco di Rhododendron, la pianta, col colore vivace della rosa e la forza dell’albero, che cresce sulle montagne della West Virginia. In realtà Country roads era stato, anche sul finire del 1970, un fortunato pretesto: Bill, John e Taffy visitarono, poco tempo dopo, il “quasi Paradiso”. In questa luce, la canzone si carica di suggestioni diverse: le radici non sono un’esclusiva del passato, ma vanno ricercate anche nel futuro. È come se il testo dicesse : “io appartengo a ciò che non ho ancora visto”. Quale augurio migliore in tempi di pandemia?
Paolo Anelli e Giovanni Amirante