Gesualdo Bufalino e l’amore per Siracusa
GESUALDO BUFALINO E L’AMORE PER SIRACUSA
di Enzo Papa
In più luoghi della sua vastissima produzione letteraria Gesualdo Bufalino amorosamente dedica spazio a Siracusa, alle bellezze del suo territorio, alle cittadine della sua provincia. Pantalica, Cyane, Noto, Vendicari, appaiono come luoghi straordinari di indicibile fascino, perduti e ritrovati luoghi di sogno: “luoghi che fanno battere il cuore”, dice, ad esempio, di Cyane, “umida e soave porticina per l’Erebo”; “questo è un luogo che, se uno ci capita, resta intrappolato e felice, chi lo muove più”, scrive di Noto. Remoti sono i rapporti tra lo scrittore di Comiso e la città aretusea. Intanto basterebbe dire che egli, come Quasimodo, nacque in provincia di Siracusa, giacché nel 1920, anno della sua nascita, non era stata ancora istituita la provincia di Ragusa e Comiso perciò era parte della provincia di Siracusa. A questa sua “ascendenza siracusana” spesso faceva simpatico riferimento quando veniva a Siracusa e incontrava gli amici siracusani.
Il suo primo scritto dedicato a Siracusa apparve nel 1947 su un settimanale della Lombardia, e aveva per titolo “Viaggio sentimentale a Siracusa”; testo successivamente recuperato e stampato nel 1988 nel volume di sicilianerie “La luce e il lutto”. Si tratta di una prosa d’arte (che nel titolo ricorda “A Sentimental Journey through, France and Italy” di L. Sterne, ma ha più a che fare con “Pesci rossi” di Emilio Cecchi, scritta in quel dolcissimo stile che già, ma ora e col senno del poi, fa presagire il grande narratore), scaturita dalla visione dell’Agamennone al Teatro Greco, vero motivo del “Viaggio” (e nel 1947, a ridosso della guerra, immaginiamo che venire da Comiso a Siracusa era certamente fare un viaggio).
Già in quella prosa del ventisettenne Bufalino appena scampato al sanatorio, si preannunciano alcuni temi fondamentali della sua scrittura: lo stile alto, la retorica, il fulmine della parola e, soprattutto, la morte. Così egli scrive: “la presenza della morte, nell’effusione presaga di quei gesti divenne il nostro familiare prodigio: era facile morire, nella storia di ognuno di noi c’era un demone guardingo e un coltello, e un piede sopra la nuca”. Come non pensare che già allora si andava maturando il grande tema che sarà la colonna portante del romanzo “Dicerìa dell’untore”, ma anche un po’ di tutta la sua produzione letteraria?
Lo conobbi nella seconda metà degli anni settanta, quando Dino non era ancora “Bufalino”. Collaboravo con la ragusana Galleria d’Arte “Il Gabbiano” di Viale Tenente Lena, la quale pubblicava anche una deliziosa rivista “Cronache di una Provincia” dove credo abbia anticipato parte del suo “Comiso ieri” e dove io pubblicavo i miei servizi. Avevo presentato in catalogo una mostra di Biagio Brancato, che dirigeva l’Istituto d’ Arte di Comiso, suo coetaneo e amico, e una sera venne in Galleria insieme a Brancato e all’altro scrittore comisano Nunzio Di Giacomo e volle conoscermi. Poi la nostra amicizia si rinsaldò per merito del comune amico Pietro Palma, il pittore di forte tempra suo collega all’Istituto Magistrale di Vittoria. “Bufalinu u signurinu” affettuosamente lo chiamavano, perché scapolone impenitente; e sapevano tutti della sua profondissima cultura che egli tuttavia mai ostentava, ma che facilmente si poteva percepire anche quando a Vittoria spiegava agli spettatori di un cineforum il film che si proiettava.
Egli amava venire a Siracusa. Veniva volentieri, anche se ogni volta per lui era un problema lasciare l’anziana madre (a cui si preoccupava di telefonare spesso) e trovare chi lo accompagnasse, poiché egli non guidava, non aveva mai voluto prendere la patente. Ricordo una volta, nel 1982, che venne assieme al compianto Pietro Palma. Girovagammo insieme per Ortigia la favolosa (e più per i vicoli e per i cortili dei quartieri fatiscenti e in abbandono; era questa Ortigia quasi segreta, aggricciata e sonnambulesca, un po’ lebbrosa, che più lo intrigava e lo coinvolgeva); poi riuscimmo a rintracciare il barcaiolo Vella che, come un moderno Caronte privo di pertica, sulla sua barca a motore ci portò fino alla gran Polla, lungo il “filiforme rio”, “fra due sponde di flessuosi papiri”. Fu una passeggiata nel mito e nell’intelligenza, ma col rammarico di non aver fatto l’escursione su una barca “di quelle all’antica, a remi, che non insozza nessuna empietà di motore”; ricordò poi quell’esperienza prima su un quotidiano e poi su “La luce e il lutto”.
Nel pomeriggio andammo nello studio di Gaetano Tranchino, che voleva conoscere. Il pittore fece dono a Bufalino, che per la verità voleva acquistarlo, un quadro che aveva per tema “il poeta” o come meglio credo “Il sogno del poeta”, davanti al quale Pino Di Silvestro volle fotografarci. Nel 1985 avevo tradotto la parte siciliana di “Du Vèsuve à l’Etna” di Roger Peyrefitte e l’editore Lombardi mi suggerì di chiedere a Bufalino l’introduzione. Dino non se lo fece dire due volte e una settimana dopo ricevemmo il bel testo che successivamente andò a far parte di “La luce e il lutto”. Ma io avevo già scritto e pubblicato, col suo consenso, la prima lettura critica della “Diceria”.
Qualche anno dopo, nel 1987, nella Chiesetta dei Cavalieri di Malta ci incantò tutti quanti, allorquando venne a presentare la mostra fotografica di Ferdinando Scianna, che avevamo organizzato non senza dispendio di energie. Bufalino era indubbiamente un gran parlatore, un autentico affabulatore, anche se non voleva darlo ad intendere, uno che sapeva trattare i suoi ascoltatori con tutte le armi della migliore retorica: un grande, lepido incantatore. E meravigliava sentirlo discorrere di Siracusa e della sua storia, che conosceva sicuramente assai meglio di tanti siracusani, e raccontare a tavola (ma assai frugali erano i suoi pasti) perfino curiosità e aneddoti.
Molte altre sono state le occasioni di una sua visita a Siracusa, anche assieme a Leonardo Sciascia, come in occasione del rientro, dopo il restauro, del “Seppellimento di Santa Lucia” del Caravaggio. Con Sciascia concordava sul fatto che a Siracusa “si può vivere, è anzi una città da vivere”. “Ma il grande amore resta per me Siracusa: stupenda nelle cose, civilissima nella gente”, ebbe a scrivere Sciascia. Anche per Bufalino Siracusa era “un grande amore”: ma non fino al punto da fargli accettare, credo nelle elezioni amministrative del 1993, una candidatura a Sindaco della città, che un ingenuo babbaccione, “batacchio di non so qual campana”, come ebbe a dirmi al telefono fra le risa, gli aveva seriamente proposto.
ENZO PAPA
NOTA BENE: il testo di cui sopra è stato pubblicato oggi, 19 Settembre 2018,
a pagina 14 de LA SICILIA, quotidiano di Catania, che ringraziamo per la collaborazione.