Gino Raya e il Cinema di Verga nel 35° della scomparsa.
Gino Raya e il Cinema di Verga
nel 35° della scomparsa(1987).
di Paolo Anelli
Era da troppo tempo e, finalmente, con l’amico prof. Paolo Anelli troviamo l’occasione per ricordare il ns. prof. Gino Raya nel 35° della scomparsa, corredando il pezzo – da parte mia – con diverse foto: chi volesse, tuttavia, soffermarsi al solo testo, legga qui in:
GINO RAYA E IL CINEMA DI VERGA
Colgo l’occasione per lanciare la proposta d’un
INCONTRO COL VERGA NELLE OPERE DI GINO RAYA
da me promosso con Coloro che abbiano a cuore il ricordo dell’Uomo e del Maestro,da organizzarsi fra Noto e Siracusa…! Biagio Iacono
Quando si pensa al carattere monumentale delle opere di Gino Raya (Mineo,1906–Roma,1987) vengono in mente sia i centoventotto fascicoli trimestrali della sua creatura principale, la rivista Narrativa nel decennio 1956-1965, la quale, nello sviluppo della teoria famista che vede nella fame il movente primario degli esseri viventi, sarà Biologia culturale dal ‘66 all’87, sia i due volumi enciclopedici: la Bibliografia verghiana che raccoglie tutte le notizie sugli scritti di e su Giovanni Verga tra il 1840 e il 1972 (per Romano Luperini uno “strumento indispensabile” a ogni studioso verghiano), e la postuma Vita di Verga, che non ha ancora ricevuto un degno riconoscimento per l’ostracismo decretato dai più influenti scrittori italiani, a partire dalla storia del Romanzo pubblicato nel 1950 dalla prestigiosa collana Vallardi dei generi letterari (Enrico Falqui sul Tempo di Roma, 10 apr. 1951: « di certi libri, […] abbandonarli alla loro sorte, che dovrebbe essere quella del dimenticatoio»), e, a seguire, la Storia della letteratura italiana, del ’53, che l’editore Marzorati non poté ristampare «per la levata di scudi di molti degli autori viventi cui Raya aveva indirizzato feroci strali» (Sebastiano Grasso, “Corriere della sera”, 1 marzo 2017). Al prof. Biagio Iacono, direttore della presente rivista, va invece il merito di avere offerto un contraltare al silenzio ufficiale di quelli che Luigi Russo definì “farfalle infilzate”, scrivendo lui stesso di Raya e ospitando gli scritti, in primis, di Pasquale Licciardello.
Sono passati, il 2 dicembre scorso, 35 anni dalla morte, e il silenzio perdura, anche se interrotto, cinque anni fa, il 2 dic. 2017, da un puntuale articolo di Sebastiano Grasso sul “Corriere della sera”, Filosofia (e fame) di Gino Raya. L’articolo appare a pagina 51, intestata Terza pagina, la cui storica funzione è evocata anche dall’occhiello del pezzo: Elzeviro / Trent’anni dopo, dove il richiamo cronologico nel 2 dicembre 2017 non dice solo l’esatta distanza dalla morte del critico, ma ricorda anche, a chi sa, che di lui si è taciuto non solo durante i 30 anni post mortem, ma della sua scomparsa (a Roma a 81 anni, un infarto mentre aspettava l’autobus per tornare a casa) non ha fatto alcun cenno lo storico quotidiano italiano, che notizie sulle sue opere, in vita, aveva pur dato, vuoi sulla spinta di rinomato editore (La lingua del Verga, seconda ristampa da Le Monnier, 1973, nella Bibliotechina del Saggiatore di Bruno Migliorini), vuoi per le migliaia di documenti inediti portati alla luce, tra cui il nuovo Carteggio Verga-Capuana: «Verga obbediva a passioni e risentimenti che Raya ha evidenziato, sfatando la formula del pessimismo» (Sebastiano Grasso, 18 agosto 1984).
Lo stesso Grasso, da buon siciliano attento alle scoperte di Raya nel campo di Verga, aveva segnalato sul “Corriere della sera” dell’8 giugno 1981 il fatto nuovo: In un carteggio inedito il burrascoso rapporto dello scrittore con il cinema. Quando il Nostro si accorge, nell’83, che Gianni Oliva, in un saggio su Verga e il teatro (“Scuola e cultura”, Roma, gen.-marzo), ignorando l’articolo del Corriere aveva definito il tema di ‘Verga e cinema’ come “ancora completamente da sviluppare”, approfitta del lapsus per lanciare una delle sue stilettate contro “la coprofagia culturale” che ancora gli impediva di pubblicare carteggi e sceneggiature cinematografiche inedite, di cui aveva già anticipato una parte in “Cinema nuovo” (Torino, apr. 1983). Tutto ciò si può leggere in Biologia culturale del dicembre 1983 (rubrica Appunti, p. 179).
Finalmente, l’anno successivo, Antonio Mazzarino, preside della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina volle inaugurare proprio con Verga e il cinema di Gino Raya una serie di “Quaderni dei Nuovi Annali” della Facoltà. L’opera comprende 265 lettere, il frutto ulteriore della sua infaticabile attività di ricerca, acquisizione, decifrazione e interpretazione di documenti verghiani. È un gruppo di lettere che «sa di scoperta più che d’inedito» (Enzo Giudici in Biologia culturale, dic. 1984). È un’opera che nel 1996 sarà giudicata imprescindibile, insieme ai contributi di Sarah Zappulla Muscarà, da Nino Genovese e Sebastiano Gesù, curatori di una miscellanea uscita per l’editore catanese Giuseppe Maimone, con lo stesso titolo: Verga e il cinema. Un libro di pregio, 336 pagine di grande formato, con un ricco apparato fotografico e documentario, un testo di Gesualdo Bufalino, e una sceneggiatura inedita di Cavalleria rusticana.
I lunghi silenzi sulle opere di Raya potrebbero nascondere l’appropriazione indebita, ma non è così, in questo caso, perché i due curatori, nel testo e nelle note del loro saggio di apertura (pp. 7-25) intitolato Verga e il cinema: «Castigo di Dio» o «San Cinematografo»? (dove, tra virgolette, usano espressioni presenti in lettere pubblicate da Raya), non mancano di citare ampiamente la fonte che, nella bibliografia conclusiva (pp. 327-331), appunto, è detta imprescindibile. Nessun dubbio. Anzi, non sfugge loro quella anticipazione su “Cinema nuovo” dell’aprile ’83, di cui ci danno il titolo: Lo sceneggiatore Verga nel mercato del cinema, e addirittura segnalano un’«altra anticipazione parziale» di quel tema nel numero di dic. ’83: La ripugnanza di Verga a ‘battere il tamburone’ (pp. 10-12). Infine, nella stessa rivista torinese del giugno ’84, rintracciano un servizio, Sceneggiature inedite di Giovanni Verga (i quadri IV e V della Storia di una capinera), attribuito a Raya, che fa riferimento proprio al suo Verga e il cinema. Alla faccia del silenzio pessimista dell’ultimo Verga.
Né mancano rimandi al Nostro in altri saggi. Lia Fava Guzzetta, ne Le immagini “cinematografiche” nella scrittura iconica verghiana (pp. 27-35) lo cita sia per le trasposizioni filmiche delle sue opere, sia per le stesse sue sceneggiature; attività motivate, le une e le altre, da ragioni economiche, nel quadro di un rapporto conflittuale del Narratore con il cinema, verso il quale nutriva un «disprezzo teorico» che, pur attenuandosi nel tempo, rimase netto e circostanziato, reso con giudizi di carattere tecnico e strumentale che l’autrice, spulciando da varie lettere verghiane pubblicate da Raya, interpreta con felice sintesi: «grezzo e primitivo [il cinema del tempo] non poteva non urtare una sensibilità così raffinata come quella verghiana, proprio nei confronti del senso di un ritmo e in ordine alla resa di quella dimensione di “visività” che il nuovo mezzo voleva gestire come suo precipuo linguaggio e che però […] rendeva “grossolanamente” appunto, con tutto un piano di visione del reale nel quale invece Verga era andato molto avanti nella scrittura narrativa». Una scrittura “iconica”, che, «forse, implicitamente postulava un cinema molto più avanzato come in effetti sarebbe poi diventato il grande cinema del nostro tempo». Quindi l’autrice vede l’opera di Verga come «un grande scrigno che contiene una enorme quantità di innovazioni tecniche, anticipazioni di grande rilievo per la scrittura letteraria novecentesca non solo italiana, configurandosi come un archetipo imprescindibile». Ed «è anche vero – aggiunge – che, a ben leggere, moltissime di tali innovazioni si realizzano nel senso di una sempre più forte acquisizione all’opera letteraria di spazi di visività, con la conquista sempre più consapevole di un nuovo orizzonte iconico della scrittura, di un linguaggio imparentato con un dettato che oggi chiameremmo tranquillamente cinematografico, proprio in quanto basato sul succedersi delle inquadrature e realizzato mediante l’uso di significati che oggi non esiteremmo a definire “filmici”, come la luce, l’ombra, la sapiente gestione delle distanze e della prospettiva, la tecnica dei piani, la sonorità in campo e fuori campo, le dissolvenze, la gestualità, vera costante stilematica del Verga maggiore».
Definendo la dimensione “cinematografica” della scrittura verghiana, e individuando nella creazione di sceneggiature per film quello che Sarah Zappulla Muscarà chiama «lo specifico filmico», Lia Fava Guzzetta arriva a riconoscere, citando Giovanni Grazzini, che, se la visività è la prima qualità chiesta ad un film , «tutta l’opera letteraria di Verga potrebbe essere letta come un film, o una serie di film, a partire perfino dal primo romanzo edito a noi giunto, I carbonari della montagna, vero romanzo storico di repertorio». Era questo il secondo dei tre romanzi storici e patriottici (il primo Amore e Patria, il terzo Sulle lagune), che si usano distinguere dai successivi cinque, passionali, a partire dalla Storia d’una capinera, che appartengono tutti, però, al periodo giovanile. Se si mette a confronto quello caduto nell’oblio, Sulle lagune, con quello seguente, di successo, scriveva nel 1960 Ernesto Cremasco «dal punto di vista letterario si potrà meglio misurare il cammino che percorse il Verga dalle composizioni ingenue e fantasiose della prima giovinezza a quelle vaste, positive e quadrate della maturità» (“Sulle lagune” di Giovanni Verga, articolo pubblicato da Raya nella sua rivista Narrativa, sett. 1960). In questa continuità progressiva, forse, si può rintracciare l’evoluzione della scrittura “filmica” del grande Siciliano, che nella sintesi di vena patriottica e passione amorosa, a me ora ricorda quando, vicino alla mia abitazione veneziana, da ragazzo vidi recitare Alida Valli, in una scena del film girato, nello stesso ambiente risorgimentale (patria e amore) di Sulle lagune, da Luchino Visconti: Senso (1954). Era l’alba del grande cinema del nostro tempo, al termine della parabola del neorealismo, che lo stesso Visconti aveva portato al culmine con La terra trema del ‘48, film ispirato al Verga maggiore, quello dei Malavoglia, girato ad Aci Trezza, lo stesso paese del romanzo, e interpretato solo da attori non professionisti, con lo stesso spirito con cui il Verga fotografo, nei suoi scatti, fissava popolani, contadini, lavandaie, persone e luoghi nei quali si possono riconoscere ambienti e personaggi delle sue opere.
L’analisi dei fenomeni tecnico-espressivi presenti nell’opera di Verga, confermando la tendenza ad uno «sconfinamento da un terreno classicamente narrativo verso quello dell’immagine visiva e uditiva», non può non richiamare l’attività di Verga fotografo, nel segno di una continuità che cancella l’etichetta fasulla del declino pessimista del Catanese. A Giovanni Garra Agosta va il merito della scoperta, nel 1966, nella casa dello scrittore, di negativi, lastre di vetro, fotogrammi in celluloide, materiali tutti che, insieme ad altri rinvenuti successivamente, vengono catalogati nel 1966-67 e vanno a costituire l’opera omnia iconografica di Verga pubblicata dallo stesso Garra Agosta nel 1991 con l’editore Giuseppe Maimone di Catania, lo stesso di Verga il cinema 2.0.
Nel 2004 all’Arengario di Milano si allestisce una mostra: Giovanni Verga scrittore fotografo, di cui parla Marco Vallora: Ma quanto verismo c’è in quelle foto (Specchio della “Stampa”, 28 ag.). Ora ci segnala il direttore Biagio Iacono un’altra recente mostra, a Seriate (Bergamo), presentata da Michele Smargiassi: Quando Verga fotografava i Malavoglia (“la Repubblica” 12 feb.). Anche Smargiassi, alla fine, concorda: «In quelle scatole nascoste c’era forse il viatico che il secolo dei romanzi affidava al secolo del cinema».
C’è anche chi, nel 2021, accosta le due attività. Giovanni Verga. Fotografo e autore cinematografico è il titolo di un articolo di Egidia La Neve Torsella, in Città di Vita (2021, 6, pp. 651-658), bimestrale di religione arte e scienza della Basilica di Santa Croce in Firenze, articolo riproposto nella medesima rivista nel 2022, 5, pp. 461-468. L’autrice, giustamente, dà torto a quei critici che in vari modi (“inaridimento spirituale”, “isolamento culturale”) spiegano il presunto silenzio, ma lo fa affidandosi al saggio del ’96 di Nino Genovese e Sebastiano Gesù senza mai citare l’imprescindibile fonte da loro stessi ripetutamente dichiarata, ossia il Verga e il cinema di Gino Raya, il quale, per primo, fin dagli anni ’60 aveva cominciato a smontare il «luogo comune della critica scolastica», la «comoda etichetta» del pessimismo verghiano.
Nel fluire degli anni, dunque, le più giovani generazioni, fatta salva la buona fede, fanno il gioco dei potenti del secolo scorso che decretarono l’ostracismo al “maestro proibito”, come lo chiamò Antonio Aniante, mentre gli studiosi onesti e impavidi sono oscurati dagli effetti nepotistici dell’ostracismo. Dopo aver ricordato le espressioni di Vitaliano Brancati e di Ercole Piatti (di un Verga immerso nella sonnolenza, nel “miele torpido” della provincia siciliana), i due autori del ’96 presentano così le varie spiegazioni della critica: «C’è chi (come Luigi Russo e Natalino Sapegno) ha parlato di un incupirsi del suo pessimismo; c’è chi ha messo in risalto le difficoltà incontrate dallo scrittore […], nella rappresentazione di una società radicalmente diversa […]; c’è chi – come Gino Raya – ha posto l’accento, invece, sul fatto che, in questo periodo, il cantore, il poeta della roba è diventato l’uomo della roba», e così via elencando minuziosamente, nella nota 2, i passi di opere rayane che spiegano la sua tesi: La lingua del Verga, la Scheda fisiologica di G. Verga in Narrativa, giugno 1962; e altre; con precisi dettagli riguardanti le lettere pubblicate da Raya.
Spiegato il silenzio letterario, i due autori passano alla pars construens, che vale la pena di trascrivere:
«Tuttavia, anche in questo periodo, la sua [di Verga] operosità intellettuale è sicuramente superiore a quanto comunemente si creda e si dica: qualora si tenga conto che quest’espressione sottintende non solo l’attività teatrale, ma qualsiasi impegno culturale. / Se ne ha una prova con la pubblicazione, da parte dello stesso Raya, delle lettere che Verga ha scritto all’amica – ed amante – Contessa Dina di Sordevolo, in quasi trent’anni [la nota 3 cita le Lettere a Dina, prima e seconda edizione, nonché la terza, del ’71, col titolo Lettere d’amore, con l’indicazione precisa del numero delle lettere nelle varie edizioni]: qui si notano, certamente, le sue preoccupazioni economiche, con i limoni di Nuovalucello o per l’esito delle cause con Mascagni e Sonzogno prima, Puccio e Monleone dopo; ma si vede anche che il Verga s’interessa e lavora attivamente nell’ambito di quel cinema4 che, comparso sul finire del secolo scorso, ai primi del Novecento si andava sempre più diffondendo, ottenendo un grande successo di pubblico, pari solo alla diffidenza, se non all’ostilità, che, pur con parecchie eccezioni, il mondo intellettuale continuava a riservargli. / Il nostro excursus critico-storico si prefigge di analizzare il rapporto Verga-cinema prendendo in considerazione il duplice aspetto che tale rapporto presuppone: vale a dire, l’interesse di Verga nei confronti del cinema e l’atteggiamento del mondo nel cinema nei suoi riguardi. Esso nella sua prima parte, si basa naturalmente su tutte le lettere scritte da Verga o a lui rivolte, che costituiscono la più importante, forse unica, fonte di documentazione sull’argomento, e tiene conto anche delle riflessioni contenute nei fondamentali ed esaurienti lavori di Sarah Zappulla Muscarà e di Gino Raya, citati nella nota 4, a cui si rimanda per una trattazione particolareggiata». (Pp. 7-8)
«Lo ha dimostrato, inequivocabilmente, lo stesso Gino Raya, estrapolando dall’epistolario Verga-Dina tutte le lettere di argomento cinematografico, aggiungendone altre inedite, ed altre ancora, rivolte a vari interlocutori, pubblicate da Sarah Zappulla Muscarà. Cfr. Gino Raya, Verga e il cinema, […]. Il volume, dopo una importante parte critica, di carattere introduttivo, comprende, nella Parte documentaria, un corpus di 265 lettere, di cui 180 a Dina, in gran parte inedite, di proprietà di Gino Raya; 63 lettere, sempre a Dina». Eccetera, fino all’ultimo riferimento: alcune lettere del carteggio Verga-De Roberto pubblicate da Vittoria Guzzardi in Biologia culturale, Roma a. XIII, n. 2, giugno 1978».
Una ventata d’aria pura, questa del 1996, sul Raya verghiano, da accostare all’elzeviro del trentennale di Sebastiano Grasso, il quale, citando Luigi Volpicelli sul Raya famista del ‘61 (“Che tesi del genere debbano suscitare perplessità e furori è scontato”), aggiunge di suo: «E così è stato. In realtà oggi, a proposito del cibo, ci si accorge di come Raya abbia precorso i tempi di circa mezzo secolo». Per chiudere il nostro contributo al 35° anniversario, riprendiamo le parole con cui Marzio Pieri, nel 1990, presentava la Bibliografia verghiana nella edizione TEA dei Malavoglia: «imponente repertorio del massimo, scrupolosissimo e pugnace, umanissimo ed antiaccademicamente intemperante conoscitore verghiano del secolo».
Assisi, 5-18 feb. 2023 – Paolo Anelli