Venezia: Ghiselli su Polis e Kalòn.
Polis e Kalòn
A Venezia in Palazzo Morosini, il 31 gennaio 2015, il nostro amico prof. Gianni Ghiselli ha tenuto una Conferenza su “Polis e Kalòn”, di cui pubblichiamo una lunga traccia, ringraziando l’Autore per la generosa collaborazione,apprezzatissima e mai abbastanza ricambiata. Biagio Iacono
“Polis e Kalòn” di Giovanni Ghiselli
La povliς degli Ateniesi, secondo i suoi elogiatori è caratterizzata dalla democrazia o isonomia, dalla parresia, dalla cultura, dall’aiuto dato ai supplici, dall’arte e quindi anche dal kalovn. Allora vediamo quali sono gli autori e i testi che elargiscono questi elogi. Vediamo del resto anche qualche critica.
Povliς e Kalovvn
Democrazia
Eschilo nei Persiani contrappone al potere assoluto il sistema democratico quando la regina Atossa domanda ai vecchi dignitari chi sia il pastore e il padrone dell’esercito. Allora il corifeo risponde:”ou[tino” dou’loi kevklhntai fwto;” oujd j uJphvkooi” (v. 242), di nessun uomo sono chiamati servi né sudditi. Il grande re Serse infatti pur se sconfitto, non è “uJpeuvquno” povlei” (v. 213), tenuto a rendere conto[1] alla città, come invece lo è uno stratego eletto dal popolo. Nei versi precedenti la regina madre Atossa racconta un suo sogno: le apparvero due donne (vv. 180 ss.), una munita pepli dorici, l’altra adorna di vesti persiane, entrambe grandi, belle e sorelle di stirpe. Simboleggino la Grecia e la Persia. Tra le due scoppiò una lite: quindi il re Serse cercava di ammansirle e le aggiogava al carro con le cinghie sotto il collo. Una delle due si esaltò per questa bardatura e porgeva la bocca docile alle briglie, mentre l’altra recalcitrava (ejsfavda/ze, v. 194), con le mani spezzò le redini del carro, lo trascinò a forza senza freni e ruppe il giogo a metà. Allora, continua la regina, cadde il figlio mio, e gli si accostò Dario e lo compianse; e Serse, come lo vide, si lacerò le vesti addosso al corpo (pevplou~ rJhvgnusin ajmfi; swvmati, v. 199). Euripide nell’ Ifigenia in Aulide fa dire alla fanciulla che ha deciso di offrire la sua vita alla patria.”è naturale che gli Elleni comandino sui barbari, e non i barbari, madre, sui Greci: loro infatti sono schiavi, noi liberi( vv. 1400-1401) “[2].
Isocrate nel Panegirico[3] denigra i Persiani attribuendo loro la morale degli schiavi: essi sono educati alla servitù più compiutamente che i servi degli Ateniesi (150).
Aristotele[4] nella Politica sostiene che i barbari non hanno la parte che per natura comanda (o[ti to; fuvsei a[rcon oujk e[cousin) e quindi la loro comunità è fatta di schiavi (1252b). I Greci dunque, in particolare gli Ateniesi sono liberi, mentre i barbari, soprattutto gli orientali, sono schiavi. Platone considera vera educazione dell’uomo pepaideumevnoς solo quella che mira alla virtù sin dall’infanzia, e rende il cittadino capace di comandare e di obbedire secondo giustizia mentre quella che tende al denaro è volgare e servile (Leggi, 644). La formazione dell’uomo a[paideutoς invece tende alla ricchezza e alla forza del potere o a qualche sofiva a[neu noũ kai; divkhς. Insomma un sapere senza sapienza. Ebbene tale formazione è cosa volgare e servile-bavnauso;n kai; ajneleuvqeron, e per niente degna di essere chiamata educazione.
La libertà principale è quella della parola
“Paideia è ab origine connessa a parresia . Se viene meno la parola libera – e la parola può cessare di essere libera soltanto per ‘autocensura’ – , la parola che intende discutere ogni presupposto e ogni ‘stato’, non vi è più scuola, ma, per dirla con Nietzsche, “produzione di impiegati”, se va bene di “impiegati intelligenti”[5].
Parrhsiva potrebbe essere scelta come parola chiave della didattica. Il suo significato può essere chiarito a partire dalloIone[6] di Euripide dove il protagonista esprime il desiderio di ereditare da una madre ateniese questo privilegio, recandosi ad Atene, poiché lo straniero che piomba in quella città, anche se a parole diventa cittadino, ha schiava la bocca senza la libertà di parola (“tov ge stovma-dou’lon pevpatai[7] koujk e[cei parrhsivan”, vv. 674-675). Analogo concetto si trova nelle Fenicie[8], quando Polinice risponde alla madre sulla cosa più odiosa per l’esule:” e{n me;n mevgiston, oujk e[cei parrhsivan” (v. 391), una soprattutto, che non ha libertà di parola. Infatti, conferma Giocasta, è cosa da schiavo non dire quello che si pensa. “La parresìa è l’elemento che il Greco avverte come ciò che massimamente lo distingue dal barbaro. L’esule soffre della perdita della parresìa come della mancanza del bene più grande (Euripide, Fenicie, 391). Inutile ricordare che il valore della parresìa svolgerà un ruolo decisivo nell’Annuncio neo-testamentario. E dunque entrambe le componenti della cultura europea vi trovano fondamento”[9].
Nella Lettera agli Efesini, Paolo Dio ha attuato il suo disegno eterno in Cristo “ ejn w̃/ e[comen th;n parrhsivan kai; prosagwghvn ejn pepoiqhvsei dia; th̃ς pivstewς aujtoũ (3, 12), nel quale abbiamo la libertà e l’accesso nella sicurezza per la fede in lui.
Nella Lettera agli Ebrei, Paolo scrive che dopo Cristo il gran sacerdote che può simpatizzare con noi nelle nostre infermità, possiamo accostarci con libertà al trono della grazia-prosercwvmeqa ou\n meta; parrhsivaς tw̃/ qrovnw/ th̃ς cavritoς, 4, 16) per ottenere misericordia e trovare grazia per essere soccorsi al momento opportuno
Nelle Leggi di Platone l’Ateniese ricorda che Ciro (559-529) tra i Persiani c’era una democrazia militare nella quale il re non era invidioso e concedeva parresia e onorava quanti erano in grado di dare consigli (tou;ς dunamevnouςsumbouleuvein, 694b). Quindi in quel tempo ogni cosa progredì grazie alla lbertà, alla concordia e alla condivisione delle intelligenze (dij ejleuqerivan te kai; filivan kai; noũ koinwnivan). Tuttavia quell’assetto si guastò con Cambise (529-522) e fu restaurato da Dario (522-485). Questo perché Ciro, pur essendo un valente condottiero, non ebbe un’educazione del tutto corretta e non la diede ai figli che lasciò in mano alle donne le quali li viziarono costringendo tutti a lodarli. Platone dunque attribuisce tale mala educazione alle donne della casa reale persiana del tempo di Ciro il Vecchio il quale, sempre impegnato in operazioni militari, delegò alle femmine la cura dei figli. Queste li viziarono impartendo loro una trofh;n gunaikeivan(Leggi, 694d) , una cura da donne, per giunta donne del re divenute ricche da poco. I padri combattevano e conquistavano, ma non insegnavano ai figli la disciplina persiana, quella di pastori e guerrieri molto resistenti alle fatiche. Insomma: “periei’den uJpo; gunaikw’n te kai; eujnouvcwn paideuqevnta~ auJtou’ tou;~ uJei’~” (Leggi, 695a), Ciro il Vecchio permise che i suoi figli, Cambise e Smerdi, fossero educati da donne e da eunuchi. Sicché essi crebbero come ci si doveva aspettare, dato il loro essere stati allevati trofh’/ ajnepiplhvktw/ (695b) in maniera licenziosa. E quando i due giovani ereditarono il regno, trufh’~ mestoi; kai; ajnepiplhxiva~, gonfi di lussuria e di sregolatezza, per prima cosa uno uccise l’altro perché non sopportava uno stato di parità, quindi costui, ossia Cambise, mainovmeno~[10] uJpo; mevqh~ te kai; ajpaideusiva~, pazzo in seguito al bere smodato e alla mancanza di educazione, perse il potere a opera dei Medi e del cosiddetto “eunuco”[11], che aveva disprezzato la stupidità del re ( katafronhvsanto~ th`~ Kambuvsou mwriva~, Leggi, 695b. Su questa parola chiave gioca Victor Hugo quando riporta queste frasi “ingenuamente sublimi” scritte da padre Du Breul nel sedicesimo secolo: “Sono parigino di nascita e parrisiano di lingua, giacché parrhysia in greco significa libertà di parola della quale feci uso anche verso i monsignori cardinali”[12].
Atene è la scuola dell’Ellade secondo il Pericle di Tucidide che nell’inverno 431-430 pronuncia il suo lovgoς ejpitavfioς sui caduti nel primo anno di guerra (II, 35-46). Lo stratego aggiunge che la sua città sarà sempre ammirata, senza avere bisogno delle lodi di un Omero o di altri poeti capaci di dilettare per breve tempo. Saranno il mare e la terra a conservare per sempre il ricordo della sua cultura e delle sue imprese. “Riassumendo dico che l’intera città è la scuola dell’Ellade (xunelwvn te levgw thvn te pãsan povlin th̃ς JEllavdoς paivdeusin ei\nai) e mi sembra che ciascun uomo singolarmente da noi possa presentare la propria persona indipendente a moltissimi generi di formazione anche con la massima eleganza e con versatilità(Storie, II, 41, 1). Parti di questo discorso ha ispirato alcuni punti della nostra Costituzione. Vediamo alcune altre frasi di questo lovgoς ejpotavfioς attribuito da Tucidide a Pericle che esercitava un potere che pur concesso dai suoi concittadini, era molto forte. Tucidide usa un’espressione ( ” ejgivgnetov te lovgw/ me;n dhmokrativa, e[rgw/ de; uJpo; tou’ prwvtou ajndro;” ajrchv”, II, 65, 9) per la quale Jaeger nota che “la teoria filosofica posteriore, della costituzione mista quale ottima forma di Stato, è qui anticipata”[13] Noi, dice il capo degli Ateniesi “abbiamo una costituzione esemplare (paravdeigma) e degna di essere imitata. Si chiama democrazia è c’è una condizione di uguaglianza (to; i[son) per tutti. Si viene eletti alle cariche pubbliche secondo la stima del valore (kata; de; th;n ajxiwvsin) né uno viene preferito alle cariche per il partito di provenienza (oujk ajpo; mevrouς) più che per il valore (to; plevon ejς ta; koina; h] ajp j ajreth̃ς), né del resto secondo il criterio della povertà (oujd j au\ kata; penivan) se uno può fare qualche cosa di buono per la città, ne è stato impedito per l’oscurità della sua posizione sociale (ajxiwvmatoς ajfaneiva/ kekwvlutai) Storie, II, 37, 1.
Sentiamo allora la nostra Costituzione.
Articolo 1: L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. L’articolo 3 è forse il più noto: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di condizioni personali e sociali. Comma B. E’ compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del paese. Nel Menesseno di Platone, Aspasia dice che nessuno è stato escluso per povertà (peniva/), né per oscurità dei padri, né d’altra parte per condizioni opposte è stato ritenuto degno di onore (238d). Sarebbe stata Aspasia a comporre questo discorso per Pericle. Sentiamola: “La nostra democrazia di fatto è un’aristocrazia con il consenso della massa. Noi abbiamo sempre avuto dei re. (Il secondo arconte che presiedeva al culto, aveva il titolo di re). Il popolo assegna cariche e potere a chi gli sembra essere il migliore: nessuno è stato escluso (ajphlevlatai oujdeivς) per debolezza, povertà, oscurità dei padri, né per motivi opposti (oujde; toĩς ejnantivoiς) è stato onorato. C’è un solo limite (ei|ςo{roς): ha il potere e le carichre (krateĩ kai; a[rcei) chi ha la reputazione di uomo saggio o buono (oJ dovxaς sofo;ς h} ajgaqo;ς ei\nai (238d). Del resto non mancano critiche alla costituzione e al governo della polis ateniese.
Nella Costituzione degli Ateniesi , scritta da un pubblicista di parte oligarchica, il dialogante A biasima la democrazia come prepotenza del popolo, e sostiene che essa è la conseguenza dell’impero marittimo: la canaglia ha preso il potere e ha reso forte la città o{ti oJ dh’mo;~ ejstin oJ ejlauvnwn ta;~ nau’~ (1, 2), in quanto è il popolo che fa andare le navi. Platone nell’VIII libro della Repubblica biasima la mancanza di serietà della democrazia, una costituzione che non si dà pensiero delle abitudini morali di chi fa politica, ma onora chi dice di essere amico del popolo. E’ una costituzione populista, piacevole, anarchica e variopinta, che distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (hJdei’a politeiva kai; a[narco” kai; poikivlh, ijsovthtav tina oJmoivw~ i[soi~ te kai; ajnivsoi~ dianevmousa, 558c). Un’uguaglianza divaricata dalla giustizia dunque se è vero quanto dice Don Milani: “Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali”[14]. Io credo che sia più ingiusto fare parti troppo diverse tra persone che sono sostanzialmente uguali come siamo noi uomini. I demagoghi furono Cleone, Iperbolo e Cleofonte, ma Platone ( nel Gorgia) non salva nemmeno Pericle quando scrive che i vari Temistocle, Cimone, Pericle sono i veri responsabili dei mali” in effetti senza preoccuparsi della temperanza e della giustizia (a[neu ga;r swfrosuvnh” kai; dikaiosuvnh”) hanno riempito la città di porti, di arsenali, di mura, di contributi e di altre sciocchezze del genere (toiouvtwn fluariw’n ejmpeplhvkasi th;n povlin, 519a). Corrisponde a quello sviluppo” quale “fatto pragmatico ed economico” senza “progresso” come “nozione ” di cui parla Pasolini negliScritti corsari (p.220). Anche l’altro discepolo di Socrate, Senofonte, critica la democrazia ateniese quando racconta un episodio che mostra la prepotenza del popolo che pretese la condanna sommaria degli strateghi pur vincitori della battaglia delle Arginuse (406). La difesa fatta da Eurittolemo mise in rilievo l’illegalità della proposta di condannare a morte gli strateghi senza distinguere le responsabilità individuali e denunciò Teramene come colui che avrebbe dovuto raccogliere i naufraghi, mentre nell’assemblea precedente il processo, il Coturno aveva accusato gli strateghi (o{~ ejn th’/ protevra/ ejkklhsia/ kathvgorei tw’n strathgw’n, Senofonte,Elleniche, 1,7, 31). Durante il processo ci fu dunque un tentativo di difesa, ma nella massa era stato inoculato l’odio e il desiderio del capro espiatori ed essa nell’assemblea gridava che era grave se qualcuno non permetterva al popolo di fare quanto voleva (“to; de; plh’qo” ejbova deino;n ei\nai, eij mhv ti” ejavsei to;n dh’mon pravttein o} a]n bouvlhtai”, Senofonte, Elleniche, I, 7, 12).”E’ la rivendicazione che riecheggia minacciosamente in assemblea ad Atene durante il processo popolare contro i generali delle Arginuse”, ed è “la formula che caratterizza, secondo Polibio, la degenerazione della democrazia (VI, 4, 4:” quando il popolo è padrone di fare quello che vuole”)”.[15]
Sentiamo quindi Polibio: “paraplhsivw~ oujde; dhmokrativan, ejn h|/ pa’n plh’qo~ kuvriovn ejsti poiei’n o[ ti pot j a]n aujto; boulhqh’/ kai; proqh’tai” (6, 4 , 4), similmente non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece, continua Polibio, lo è quella presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi; presso tali comunità, quando prevale il parere dei più (o{tan to; toi’~ pleivosi dovxan nika’/), questo bisogna chiamare democrazia. l fatto che Polibio più avanti scriva (9, 23, 8) che ai tempi di Pericle ad Atene gli atti crudeli erano pochi (ojlivga me;n ta; pikrav) mentre prevalevano quelli buoni e santi (polla; de; ta; crhsta; kai; semnav) fa pensare che lo storico considerava se non “vanificata”, certo “contenuta” e limitata da Pericle, la prepotenza del plh’qo~ nel primo periodo della democrazia radicale. Aristotele nella Politica (1292a) scrive che dove non comandano le leggi non c’è costituzione: o{pou ga;r mh; novmoi a[rcousin, oujk e[sti politeiva. Atene nei drammi di Eschilo, Sofocle, Euripide è anche la città che protegge e aiuta i supplici. Nelle Eumenidi di Eschilo, Oreste viene assolto da metà degli areopagiti e dalla dea poliade Atena e le Erinni che lo perseguitavano vengono rese benevole. Le tragedie di Euripide mettono in rilievo più di una volta l’accoglienza dei supplici da parte della polis ateniese: nella Medea, la donna che si è vendicata del marito traditore verrà accolta da Egeo.
Negli Eraclidi[16] il re di Atene, in questo caso Demofonte, figlio di Teseo e di Fedra, riceve e accoglie una richiesta di aiuto dai supplici figli di Eracle che l’argivo Euristeo perseguita: nella parodo il coro composto di cittadini ateniesi avverte: “a[qeon iJkesivan meqei’nai povlei-xevnwn prostropavn” (vv. 107-108), è empio per una città trascurare la supplice preghiera di stranieri. Più avanti i vecchi del coro ribadiscono che da sempre la loro terra vuole contribuire con la giustizia ad aiutare chi è privo di risorse: “ajei; poq j h{de gai’a toi’~ ajmhcavnoi~-su;n tw’/ dikaivw/ bouvletai proswfelei’n”, (vv. 329-330). Questa tragedia rientra “in un modello tragico ben adicato nel teatro del V secolo: le tragedie “di supplica”, che hanno come argomento l’arrivo di un supplice e il suo accoglimento all’interno della polis , che si prende cura di proteggerlo dai prepotenti che vogliono strapparlo dall’altare, infrangendo le regole civili e religiose dell’ospitalità. Il più antico esempio di questo tema, nei drammi conservati, sono le Supplici di Eschilo, cui si affiancano due drammi euripidei, le Supplici e gliEraclidi. Pur inserendosi però in questo modello drammatico, l’Edipo a Colono sviluppa molto origunalmente il tema tradizionale, soprattutto perché sposta il fulcro dell’azione dall’accoglimento (risolto, in sostanza, nella prima parte della tragedia) a quello, molto più ampio, dell’eroe davanti alla polis, alla morte, al destino: l’accoglimento del supplice non risolve la tragedia, ma è la premessa di un dramma che si sviluppa poi in altre direzioni…in nessun’ altra tragedia sofoclea lo spazio che fa da contorno all’azione ha un risalto simile, tanto che Colono potrebbe essere considerata più un muto e invisibile personaggio che un semplice sfondo”[17]. Questo mito che illustra la generosità degli Ateniesi lascia echi che si prolungano per secoli: Arriano[18] nell’Anabasi di Alessandro racconta che a Callistene, storico ufficiale di Alessandro Magno, Filota domandò se un tirannicida poteva trovare rifugio e salvarsi presso qualche popolazione greca, e il pronipote di Aristotele rispose che un fuggitivo poteva salvarsi, se non presso altri, certo dagli Ateniesi, essi infatti si erano battuti per i figli di Eracle anche contro Euristeo “turannou`nta ejn tw`/ tovte th`~ JEllavdo~” ( 4, 10, 4) che allora tiranneggiava la Grecia.
Nelle Supplici[19] di Euripide Etra, la madre di Teseo, incoraggia il figlio a soccorrere i morti e le donne che hanno bisogno di aiuto. La loro patria, Atene, si ingrandisce nei travagli (“ ejn ga;r toi'” povnoi” au[xetai, v. 323). Alla fine del primo stasimo il coro delle donne supplici che hanno perduto i loro cari prega la città di Pallade di soccorrere le madri: “suv toi sevbei” divkan, to; d j h|sson ajdikiva/-nevmei”, dustuch’ t j ajei; pavnta rJuvh/ ” ( vv. 379-380), tu onori la giustizia, tu non dai spazio all’ingiustizia, e proteggi i disgraziati.
Il mito di Stato in Sofocle
La fama dell’ospitalità di Atene è nota anche all’Edipo di Sofocle, il vecchio cieco giunto a Colono con Antigone ricorda al corifeo che la città, per essere all’altezza della sua reputazione non può non accoglierlo: qual è, domanda, il vantaggio della fama, o di una bella rinomanza diffusa invano, se dicono che Atene è la città più pia ( jAqhvna” fasi; qeosebestavta” ei\nai, Edipo a Colono, vv. 260-261) la sola capace di salvare lo straniero maltrattato, la sola che può resistere? Del resto Edipo merita quel soccorso; infatti subito dopo aggiunge:” ejpei; tav e[rga mou-peponqovt j ejsti; ma’llon h] dedrakovta” (Edipo a Colono, vv. 266-267), poiché le mie azioni sono state subite piuttosto che fatte[20]. Nell’Edipo a Colono c’è un forte contrasto fra Edipo e Creonte: “La sfida tra personaggi contrapposti si sposta però a un livello più ampio: Atene protegge Edipo, Tebe lo perseguita. Come spesso avviene nella tragedia, la contrapposizione si sviluppa quindi tra due forme nello stesso tempo politiche e simboliche: vale a dire, tra la città “sana” e quella “malata”. La tirannide è caratteristica di Tebe (del resto, storicamente, in guerra contro Atene quando il dramma fu composto); la giustizia lo è di Atene, impersonata sulla scena dal suo re “democratico”, Teseo. Tebe è la città delle guerre civili, Atene offre ai perseguitati la giustizia e la pietà ed è il solo spazio sulla terra in cui un uomo può essere effettivamente accolto e aiutato. Il fatto che questo nobile quadro di una città giusta e buona sia stato tracciato negli ultimissimi anni della grandezza di Atene, quando tutti sapevano che la guerra era ormai perduta e che lo splendore di Atene apparteneva al passato, aggiunge emozione al clima già solenne e quasi sacrale dell’Edipo a Colono. Così il nobile Teseo dell’Edipo a Colono richiama il Teseo che alla fine dell’Eracle di Euripide ospita un eroe generoso e sventurato, offrendogli uno spazio cittadino in cui inserirsi[21], anche se l’ottica tutta umana e laica di Euripide, per il quale l’unica speranza di riscatto sta nella solidarietà tra gli uomini, mentre gli dèi sono ostili e malvagi, è lontana da quella dell’Edipo a Colono dove anche le forze invisibili del divino si affiancano agli uomini nel tendere la mano a Edipo…Accettare un supplice in città e integrare uno straniero che, in quanto estraneo alle leggi cittadine, rappresenta un elemento di parziale sovversione, mette in moto meccanismi profondi, non solo della socialità politica greca, ma di quella che si potrebbe definire una psicologia collettiva dell’ambivalenza. Un supplice soprattutto presenta un’ambiguità di fondo: è un essere divino posto sotto la tutela di Zeus Ikesios e sacralizzato dal contatto con l’altare ma anche un pericolo. Per eccellenza però, un supplice rischia di portare con sé la rovina o la contaminazione: Odisseo porterà con sé l’ira di Poeidone e l’alone di misterioso pericolo che circonda un supplice era ancora attuale nella cultura del V secolo (come dimostra tra l’altro anche il racconto erodoteo di Adrasto e Creso[22]). Anche Edipo porta con sé una duplice e ambigua natura: espulso come un maledetto dalla sua città, entra in un’altra nella veste di supplice e salvatore, due categorie solo apparentemente contraddittorie, che s’incrociano come si erano incrociate, nell’Edipo del primo dramma, quelle di re e farmakov~, di reietto e di prescelto”[23].
Anche Isocrate ricorda più di una volta questo ruolo protettivo. Nel Panegirico [24] l’oratore fa un caldo elogio di Atene e sottolinea l’antichità dei benefici elargiti ai supplici dalla su città, “dalla quale è giusto che prendano le prove di fiducia quelli che discutono sulle tradizioni patrie: molto prima della guerra di Troia infatti vennero da noi i figli di Eracle e prima ancora Adrasto, figlio di Talao, re di Argo” (54). Infine Stazio nella Tebaide rappresenta Giunone che parteggia per gli Argivi e dopo la loro sconfitta si muove verso le mura di Atene: ” Theseos ad muros, ut Pallada flecteret, ibat,/supplicibusque piis faciles aperiret Athenas” (XII, 293-294), per convincere Pallade e aprire Atene bendisposta alla pie donne supplici.
L’articolo 10 della nostra Costituzione dice: “Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica. Non è ammessa l’estradizione per motivi politici.
La componente estetica, il kalovn.
C’è una frase dell’epitafio di Pericle-Tucidide che mi sembra emblematica non solo dell’Atene periclèa ma di tutta la cultura greca, anzi di tutta la migliore cultura europea:”filokalou’mevn te ga;r met j eujteleiva” kai; filosofou’men a[neu malakiva””(II, 40, 1), amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza. I paradigmi mitici di questo culto della bellezza si trova nelle tragedie dove l’eroe preferisce la morte al vivere fuori dalla bellezza. L‘Aiace di Sofocle e non sopporta di sopravvivere al suo disonore, e prima di uccidersi dice:”ajll j h] kalw'” zh’n h] kalw'” teqnhkevnai-to;n eujgenh’ crhv”[25], ma il nobile deve vivere nobilmente o nobilmente morire. Nè manca la giovane donna eroica che preferisce la morte ad una vita ignobile: Polissena nell’Ecuba di Euripide chiede alla madre di lasciarla morire senza opporre resistenza:”to; ga;r zh’n mh; kalw'” mevga” povno””(v. 378), infatti il vivere senza bellezza è una grande fatica. Antigone presenta tutti i tratti dell’eroina: ella non cede alle obiezione dettate dal buon senso di Ismene, anzi replica :” io non soffrirò/nulla di così grave da non morire nella bellezza” (w{ste mh; ouj kalw'” qanei’n, Antigone, vv. 96-97). Nella filosofia, Platone fa dire a Socrate che la bellezza terrena risvegli il ricordo di quella eterna dell’idea del bello, il bello in sé. L’idea della bellezza è la più vivamente riprodotta nel mondo sensibile ed è particolarmente efficace nel risvegliare il ricordo. Solo la bellezza ha ricevuto questa sorte di essere l’idea che rimane più manifesta e amabile qua sulla terra. Del resto nella pianura della realtà, met’ ejkeivnwn, tra quelle idee, e[lampen o[n, brillava come essere (Fedro, 250d). Chi vede una bella persona e ricorda la bellezza ideale, la contempla e venera religiosamente, e gli spuntano le ali. Il ricordo fa crescere l’ala attraverso tutta l’anima: pa’sa ga;r to; pavlai pterwthv (251b), infatti un tempo l’anima era tutta alata.
Aristotele scrive che lo scopo del tiranno è il piacere (to; hJduv), quello del re to; kalovn, la bellezza “e[sti de; skopo;ςturannikoς me.n to; hJduv, basiliko;ς de; to; kalovn” (Politica 1311A). Nella Retorica (1389b) Aristotele, sparlando a proposito e a sproposito dei vecchi, dice che sono fivlautoi ma’llon h] dei’, egoisti più del dovuto e che questa è una forma di mikroyuciva, meschinità: kai; pro;~ to; sumfevron zw’sin, ajll j ouj pro;~ to; kalovn, vivono per l’utile e non per il bello, proprio per il fatto di essere egoisti: l’utile infatti è un bene individuale, mentre il bello è un bene assoluto (to; de; kalo;n aJplw’~). Dal dolore dei Greci si sviluppa non solo la comprensione ma anche la bellezza, una sorta di tw/’ pavqei kavllo” :”Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore…la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppata dalla mancanza, dalla privazione, dalla malinconia e dal dolore…quanto dovette soffrire questo popolo, per poter diventare così bello!”[26]. La “Classicità non è chiarezza sin dall’inizio, bensì contesa giunta ad unità, discordia conciliata, angoscia risanata”.[27] The lesson of that past tell us that a Polis able to create the Beautiful, as well as a Res Publica able to root (fare attecchire the Good), were based on the concept of Scholè, that is leisure-tempo libero-, free time spent gazing- fissando- or theorizing into the true nature of things, and embodying- includendo. a moral dimension requiring a catharsis from the body’s perturbations and from all value standards and metrics.
Nelle Supplici[28] di Euripide Teseo è il Pericle in vesti eroiche il quale elogia la costituzione democratica[29]dialogando con l’araldo mandato da Creonte re, anzi tiranno di Tebe. Atene dunque non è comandata da un uomo solo, ma è una città libera (ejleuqevra povli” , v. 405). Il re di Atene in questa tragedia scritta poco prima della pace di Nicia, è addirittura ottimista. Egli confuta quanti sostengono che il male prevalga, e afferma che invece per gli uomini è maggiore il bene che il male. Se fosse maggiore il male non vivremmo nella luce. Dunque Teseo elogia quello tra gli dèi che ha regolato la nostra vita da confusa e bestiale che era (ejk pefurmevnou[30]– kai; qhriwvdou”), innanzitutto mettendoci dentro l’intelligenza, poi dandoci la lingua messaggera delle parole, in modo da capire la voce (vv. 201-205). L’araldo delle Supplici ribatte che il governo di un solo uomo non è male: infatti esclude i demagoghi i quali gonfiando la folla con le parole la volgono di qua e di là a proprio profitto. Del resto chi lavora la terra non ha tempo né per imparare né per dedicarsi alle faccende pubbliche:” oJ ga;r crovno” mavqhsin ajnti; tou’ tavcou” -kreivssw divdwsi (vv. 419-420), è infatti il tempo che dà un sapere più forte invece della fretta. Teseo non controbatte la critica ai demagoghi, che condivide, ma risponde che il tiranno è l’entità più ostile alla polis:”oujde;n turavnnou dusmenevsteron povlei” (v. 429). Egli infatti uccide i migliori, quelli dei quali considera la capacità di pensare, in quanto teme per il suo potere:”kai; tou;” ajrivstou” ou{” a]n hJgh’tai fronei’n-kteivnei, dedoikw;” th'” turannivdo” pevri” (vv. 444-445). Sicché la città si indebolisce: come potrebbe essere forte quando uno miete i giovani come da un campo di primavera si porta via la spiga a colpi di falce? (vv. 447-449). Inoltre il despota si impossessa dei beni altrui rendendo vane le fatiche di chi voleva acquistare ricchezze per i propri figli. Per non parlare delle figlie che l’autocrate vuole rendere strumenti del suo piacere. l’Elettra di Euripide recitando il biasimo funebre di Egisto allude, con pudica e verginale aposiopesi, alle porcherie che l’usurpatore faceva con le donne:”ta; d j eij” gunai’ka”, parqevnw/ ga;r ouj kalo;n-levgein, siwpw’ ” (Elettra, vv. 945-946). “Che Atene sia la terra della giustizia è un Leitmotiv ideologico della cultura ateniese, ed è il presupposto di tagedia “di supplica” come le Supplici euripidee…Il motivo ha una sua trattazione anche nell’oratoria epidittica, come assicura tra l’altro il parallelo di Lisia, 2, 17-9: ‘i nostri antenati seguirono sempre il principio di battersi per la giustizia (peri; tou` dikaivou diamavcesqai)… con la legge premiando i buoni e punendo gli scellerati’ ”[31].
La scolhv, il tempo libero: vediamo Euripide, Platone e Aristotele sul tempo libero. Brevissima appendice senecana
Abbiamo già visto che L’araldo delle Supplici di Euripide sostiene che per giungere all’apprendimento è necessario il tempo libero che la fatica di lavorare la terra non lascia: “oJ ga;r crovno” mavqhsin ajnti; tou’ tavcou” -kreivssw divdwsi (vv. 419-420), è infatti il tempo che dà un sapere più forte invece della fretta. Passiamo a Platone: nel Fedone, Socrate dice che il corpo con i suoi desideri ci fa impiegare il tempo in guerre, rivoluzioni, battaglie per il possesso delle ricchezze. Noi, se siamo schiavi al servizio corpo e non ce ne emancipiamo, manteniamo la mancanza del tempo libero (ajscolivan a[gomen filosofivaς pevri) indispensabile per la filosofia. E anche se interviene un poco di tempo libero (eavn tiς hJmĩn kai; scolh; gevnhtai) i desideri del corpo portano confusione e turbamento (66D). Dunque il corpo ci procura innumerevoli occupazioni (murivaς ga;r hJmĩn ajscolivaς parevcei to; sw̃ma) per la sua necessità di essere nutrito. Anche le malattie che ci cadono addosso ci impediscono la caccia dell’essere (novsoi…ejmpodivzousin hjmw̃n th;n toũo[ntoς qhvran (66B) . Nella Repubblica, Platone fa dire a Socrate che ogni cosa riesce meglio kavllion kai; rJa//on, più bella e fatta più facilmente, quando uno si dedichi a una cosa sola, secondo natura e nel tempo opportuno, tenendosi il tempo libero dalle altre-scolh;n a[llwn a[gwn (370c). Nel Fedro, Socrate dice che non ha scolhv per spiegare razionalmente i miti, poiché non è ancora in grado di conoscere se stesso. Per questa impresa ci vuole molto tempo. Egli dunque prende i miti come sono. Se non credesse ai miti non sarebbe lo strano uomo che è (oujk a]n a[topoς ei[h (229C). Dunque le facciano i sofoiv le razionalizzazioni. Nell’Apologia di Socrate, Platone fa dire al maestro che in vita sua è rimasto povero in quanto ha voluto solo mantenere il tempo libero per esortare i concittadini (a[gein scolh;n ejpi; uJmetevra/ parakeleuvsei) e aggiunge che per questo meriterebbe di essere nutrito nel Pritaneo come i vincitori olimpici (36D).
Aristotele
Aristotele nella Politica (1133A) ricorda che l’anima di divide in due parti: la parte ragionevole che comanda e l’altra priva di lovgoς che deve obbedire[32]. La parte migliore dell’anima è quella che ha la ragione (bevltion de; to; lovgon e[con, 1133A). Il logos poi può essere pratico o teoretico[33]. Anche le attività si dividono in due, anzi tutta la vita dell’uomo si divide in due: “dihv/rhtai de; kai; pãς oJ bivoς eijς ajscolivan kai; scolh;n kai; eijς povlemon kai; eijrhvnhn (Politica, 1133A): in mancanza di tempo libero, cioè occupazione, e tempo libero, in guerra e pace.La scelta di queste parti deve seguire lo stesso criterio dell’ ai{resiς, la scelta delle parti dell’anima: la guerra per la pace, l’occupazione priva del tempo libero per acquistare il tempo libero (povlemon me;n eijrhvnhς cavrin, ajscolivan de; scolh̃ς), le cose necessarie e utili in vista di quelle belle (ta; d j ajnagkaĩa kai; crhvsima tw̃n kalw̃n e{neken).
Si deve poter ajscoleĩn , essere occupato e fare la guerra (polemeĩn), ma più ancora eijrhvnhn a[gein kai; scolavzein(1133B), costruire la pace e il tempo libero . E fare le cose necessarie e utili, ma anche le belle. A questi scopi bisogna educare i fanciulli e non solo. In conclusione, vi devono essere delle virtù- capacità- volte alla conquista del tempo libero (deĩ ta;ς eijς th;n scolh;n uJpavrcein, 1134A), infatti la pace è il fine della guerra (eijrhvnh tevloς polevmou) e il tempo libero è il fine dell’occupazione (scolh; dj ajscoliva…)Per conquistare il tempo libero sono utili le capacità nel lavoro.Una città deve essere temperante coraggiosa e forte, perché secondo il proverbio: non c’è tempo libero per gli schiavi (kata; ga;r th;n paroimivan, ouj scolh; douvloiς, (1334A). Per l’ajscoliva, l’occupazione ci vogliono coraggio e forza, per la scolhv ci vuole la filosofia. In entrambi i momenti sono necessarie temperanza e giustizia. Nella educazione (ejn th̃/ diagwgh̃/) vanno inserite pratiche e nozioni pro;ς th;n scolhvn per il tempo libero, occupazioni e insegnamenti paideuvmata-maqhvseiς che sono fine a se stessi, come la musica e la ginnastica, considerate occupazioni del tempo libero degne di uomini liberi, come mostra Omero che considera l’aedo un allietatore (Odissea, XVII, 385; IX, 7-8).L’educazione si impartisce non perché sia utile e necessaria ma perché liberale e nobile (1338A). Cfr. infine gli occupati oziosi di Seneca. La loro vita è una occupazione oziosa Sono quelli “quorum otium occupatum est: in villa aut in lecto suo, in media solitudine, quamvis ab omnibus recesserint, sibi ipsi molesti sunt: quorum non otiosa vita dicenda est sed desidiosa occupatio…Non habent isti otium, sed iners negotium (De brevitate vitae, XII). Questi non hanno tempo libero ma un’occupazione inoperosa, un affaccendarsi inutile. Questo otium occupatum è un otium cattivo, come la scolhv menzionata da Fedra che nell’Ippolito di Euripide la denigra come “diletto cattivo”:”bisogna considerare questo:/il bene lo conosciamo e riconosciamo,/ma non lo costruiamo nella fatica (oujk ejkponou’men[34]: alcuni per infingardaggine (ajrgiva” u{po),/ alcuni anteponendogli qualche altro piacere./ E sono molti i piaceri della vita:/lunghe conversazioni, l’ozio, diletto cattivo, e l’irrisolutezza (scolhv, terpno;n kakovn,-aijdwv~ te) “(vv.379-385). Esistono dunque due forme di aijdwv~: “ dissai; d’ eisivn, h{ me;n ouj kakhv,-h{ d j a[cqo~ oi[kwn” (vv. 385-386).
Giovanni Ghiselli
[1] Un altro personaggio tragico che afferma l’insindacabilità del potere assoluto è Lady Macbeth nella scena del sonnambulismo:”What need we fear who knows it, when none can call our power to account it?” (Macbeth, V, 1), perché dovremmo temere chi lo sappia, quando nessuno può chiamare la nostra potenza a renderne conto?
[2] Demostene nella III Olintiaca (348, dove vuole convincere gli Ateniesi a soccorrere la città della Calcidica contro Filippo di Macedonia) scrive che una volta agli Ateniesi obbediva il re di Macedonia ed era giusto essendo un barbaro che obbedisse ai Greci (24)
[3] Un caldo elogio di Atene, del 380 a. C.
[4] 384-322 a. C.
[5] M. Cacciari, op. cit., p. 22.
[6] Del 411 a. C.
[7] Forma poetica equivalente a kevkthtai.
[8] Rappresentata poco tempo dopo lo Ione. Tratta la guerra dei Sette contro Tebe.
[9] M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, p. 21 n. 2.
[10] Cfr Erodoto III, 38: “pantach’/ w\n moi dh’lav ejsti o{ti ejmavnh megavlw” oJ Kambuvsh””, da ogni punto di vista dunque per me è evidente che molto matto era Cambise.
[11] Erodoto (III, 61, 2) dice che assomigliava a Smerdi e aveva lo stesso nome.
[12] Notre-Dame de Paris, p. 38.
[13] Op. cit. p. 684. La costituzione è un nutrimento di uomini (trofh; ajnqrwvpwn), di persone buone, se è buona, di individui malvagi se è cattiva. Quella ateniese ha nutrito uomini di valore. p. 198- Essa non esclude nessuno per debolezza sociale, né per povertà, né per oscurità dei padri; e neppure preferisce alcuno per i motivi contrari. I medesimi pregi vengono attribuiti alla “sua” democrazia dallo stesso Pericle nel discorso che gli attribuisce Tucidide inStorie II 35 sgg. quando lo stratego fa l’encomio dei caduti nel primo anno di guerra e l’elogio di Atene, la scuola dell’Ellade (II, 41)
[14] Lettera a una professoressa, p. 55.
[15]Canfora, Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica , Volume I, Tomo II, p. 835.
[16] Composta tra il 430 e il 427 a. C.
[17] G, guidorizzi, Op. cit., p. XXXI
[18] Operò sotto Traiano e Adriano.
[19] Del 422 a. C., forse.
[20] Lo stesso afferma Re Lear, “the lunatic King ” di Shakespeare:” I am a man/more sinned against than sinning” (King Lear, III, 2), sono uno contro cui si è peccato più di quanto io abbia peccato.
[21] Euripide, Her. Fur., 1332-35.
[22] Erodoto, I, 35-45. Adrasto assassino di suo fratello aveva chiesto asilo a Creso ed era stato purificato dal suo delitto, ma durante una caccia uccise involontariamente il figlio di Creso e si suicidò. In Omero, il tipico purificatore di supplici è il pio Peleo, che accoglie presso di sé sia Fenice, che era stato maledetto dal padre in seguito a un incesto, sia Patroclo, il quale aveva ucciso un compagno di giochi. Fenice fu maledetto dal padre Amintore, poiché la madre lo aveva spinto a diventare amante dell’amante del padre il quale lo maledì ( Iliade, IX, vv. 450 e sgg.). ndr
[23] G. Guidorizzi, Sofocle Edipo a Colono, pp. XXV-XXVI.
[24] Del 380 a. C.
[25] vv. 479-480.
[26] F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872), p. 7 e p. 163.
[27] B. Snell, Eschilo e l’azione drammatica , p. 141.
[28] Data probabile: 422 a. C.
[29] Anche Plutarco attribuisce a Teseo il dono, ai non potenti, di un governo senza re e della democrazia che si sarebbe servita di lui solo come capo militare in tempo di guerra e come custode delle leggi e avrebbe offerto a tutti uguaglianza di diritti (Vita di Teseo, 24, 3). Plutarco aggiunge che ne dà una testimonianza anche Omero il quale nel catalogo delle navi chiama dh’mo” solo gli Ateniesi (Iliade, 2, 547).
[30] Participio perfetto medio passivo di fuvrw. La confusione anche qui è emblema di male.
[31] Avezzù-Guidorizzi, Op. cit., p. 318.
[32] Nell’Etica Nicomachea, Aristotele spiega che la parte irrazionale dell’anima è a sua volta divisa in due parti: una vegetativa comune agli animali, e una appetitiva o concupiscibile (ejpiqumhtikovn) che deve obbedire alla ragione (1102b)
[33] Nell’Etica Nicomachea (1139A) dice che l’anima razionale ha una parte scientifica e una discorsiva: una si occupa dei princìpi che non possono essere diversi da come sono, la seconda discute sul discutibile.
[34] Il bene, topicamente, costa povno” , fatica.