“1943. La Sicilia si arrende”
Pubblichiamo il testo della conferenza che il prof. preside Angelo Fortuna ha tenuto presso la sede della UNITRE di NOTO presieduta dal prof. Franco Castello, che ringraziamo per l’ospitalità.
“1943. La Sicilia si arrende” di C. Appolloni e M. Favaccio
(Morrone Editore, Siracusa, 2013, pp. 228,€ 15,00)
Ci sono nella storia dei popoli eventi traumatici che, più in profondità degli altri, segnano una radicale cesura nella vita dei singoli e delle comunità e determinano una frattura netta tra un prima e un dopo, che è doveroso sottolineare per capire il senso degli eventi e i mutamenti dei modi di essere delle persone.
A livello di macrostoria, non per nulla l’avventura dell’uomo sulla terra è segnata dall’incarnazione di Gesù Cristo, di colui che è il senso della storia, per cui, da due millenni, l’evoluzione del genere umano viene classificata secondo che i fatti che ad essa si riferiscono siano avvenuti prima o dopo l’Evento per eccellenza, cioè avanti Cristo o dopo Cristo, ante Christum natum e post Christum natum. A livello locale, isolano, la microstoria concernente in particolare la Sicilia sud-orientale è stata duramente segnata anch’essa da un ante e un post. Mi richiamo, in questo caso, a prima e dopo il devastante sisma del 9, 11 gennaio 1693, il sisma sinistro e terrificante che ci ha costretti ad adottare la suddivisione cronologica locale, distinguendo ciò che è avvenuto ante terrae motum e post terrae motum. Drammaticamente interessate da questa tragica data furono le comunità di Noto e Avola. I netini, dopo ampio dibattito tra i superstiti, decisero di abbandonare la terra degli avi, il monte Alveria, per iniziare la grande avventura di Noto barocca sul piano delle Meti e sul declivio sottostante; gli avolesi diedero l’addio alle balze degli Iblei, da cui, disponendo di una vista sul mare a 180°, potevano agevolmente controllare le incursioni nemiche, soprattutto saracene, e coraggiosamente, fidando su un avvenire meno precario, cioè libero da invasioni piratesche, scesero in pianura, a due passi dal mare, per tracciare l’Esagono, edificare una città moderna e iniziare un nuovo processo storico ampliando e diversificando le loro attività. Da contadini e cacciatori, quali erano, legati a un’economia di mera sussistenza, molti di loro si aprirono a una agricoltura più razionalizzata, all’artigianato, al commercio e alla pesca. Ai nostri giorni, sempre più, di fronte a una terza divaricazione che la prospettiva storica sempre più impone, si avverte la necessità di sottolineare e interpretare il senso del grande evento, nel bene e nel male, rappresentato dallo sbarco degli Alleati sulle nostre coste del 10 luglio 1943.
Lo sfondo storico, che consente di valutare adeguatamente la portata degli eventi, a 70 anni da quei drammatici giorni dell’invasione anglo-americana, ci rappresenta il quadro di una grande svolta che giustifica una ulteriore, ampia suddivisione della microstoria locale. Sappiamo oggi con la certezza testimoniata dall’evidenza dei fatti storici che quel temuto sbarco, che fu giustamente denominato invasione, si tradusse, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, in qualcosa di profondamente innovativo per la nostra vita prendendo, tra l’altro, l’aspetto della liberazione dal totalitarismo, senza con ciò voler negare, sottovalutare o, peggio, banalizzare – sia ben chiaro – la drammaticità degli eventi che seguirono al più grande dispiegamento di navi e forze militari mai concepito e portato a esecuzione dall’inizio della storia umana sul teatro del mare Ionio, con particolare riferimento al tratto di costa che da Avola porta a Capo Passero. Mi domando quindi se, per ben inquadrare quel momento storico che tracciò una frattura, una netta discontinuità rispetto al passato, non sia necessaria un’altra suddivisione della nostra storia locale, anche in questo caso tra un prima e un dopo, cioè tra prima dello sbarco e dopo lo sbarco. Mi chiedo insomma se non sia necessario solennizzare, anche in questo caso con la lingua dei padri, gli eventi del Novecento del sud-est siciliano secondo che siano avvenuti ante Anglorum irruptionem e post Anglorum irruptionem, proprio per sottolinearne la dirompente novità e gli effetti travolgenti sulla nostra realtà umana. Credo di trovare d’accordo con questa mia interpretazione gli Autori di “1943, la Sicilia si arrende”, se è vero che, come prima testimonianza, essi riportano un’espressione di Sebastiano Bono che afferma, da quella persona di buonsenso qual era, che la data del 10 luglio 1943 rappresenta per noi una sorta di prima e dopo Cristo. Non si tratta di una rincorsa a frasi ad effetto, ma di far propria la lezione della storia e giudicare tutta una serie di fatti concreti, confermati ai nostri giorni da una sempre più corposa moltiplicazione di memorie, di notizie, di ricerche intorno a quanto è avvenuto in Sicilia dopo quel fatidico 10 luglio 1943, di cui quest’anno si commemora il 70° anniversario. Non per nulla, al riguardo, sono annunciati incontri e convegni di studio. 70 anni costituiscono, infatti, un sufficiente background per prendere atto della straordinarietà per noi siciliani di quell’imponente dispiegamento di forze e di quello sbarco, che, pur tra lutti, distruzioni, disperazione, desolazione, ha significato per la nostra terra una grande svolta con l’aggancio e la presa duratura di contatto con la modernità e la post-modernità, anche in questo caso nel bene e nel male. L’invasione anglo-americana ha portato, nella nostra società statica d’anteguerra, il vento del progresso che ha facilitato un benefico salto culturale e ci ha consentito di aprirci all’Europa e al mondo intero, ma ha determinato, purtroppo, anche il tragico abbandono della nostra identità siciliana, della nostra sicilianità, della dimensione sublime della sicilitudine, per esempio tutte le volte che ci ha indotti ad accettare acriticamente qualunque innovazione senza sottoporla al vaglio della ragione, rischiando, come è avvenuto, di buttare con l’acqua sporca anche il bambino. Occorre considerare che l’analisi obiettiva di tutte le questioni riguardanti l’uomo e la sua avventura sulla terra insegna che qualunque situazione umana è caratterizzata dall’ambivalenza. È, cioè, a doppio taglio nella misura in cui può favorire il bene se si recepisce il suo significato profondo ai fini della crescita complessiva di una persona e/o di una comunità. Può invece introdurre elementi di disgregazione, se si accetta tutto supinamente finendo per rinnegare la saggezza indotta da una esperienza di vita millenaria.
Tenendo presenti queste brevi note introduttive, possiamo ora tornare all’argomento centrale del nostro incontro. Credo, per mettere in situazione tutti i gentili presenti all’incontro, di potere tranquillamente affermare che, tra le ricerche storiche scritte e pubblicate in occasione del 70° dello sbarco degli Alleati in Sicilia, sia per perpetuarne la memoria storica, sia per capire i dati fondamentali della strutturazione umana e comportamentale di noi siciliani del terzo millennio alla luce dell’evoluzione e degli sviluppi determinati dai fatti iniziati il 10 luglio 1943, rivela una sua peculiarità inconfondibile il lavoro di Corrado Appolloni e di Michele Favaccio, “1943, la Sicilia si arrende”, pubblicato per i tipi dell’editore Morrone poche settimane fa. L’opera si configura come un affresco con molteplici scene che, partendo dalla sventurata entrata nel secondo conflitto mondiale dell’Italia mussoliniana, il 10 giugno 1940, passa rapidamente a focalizzare il doloroso e traumatico evento dello sbarco del 10 luglio 1943, che fu ufficialmente denominato “Operazione Husky”, che si può considerare come il primo atto dell’inconditional surrender, della resa senza condizioni, imposta dagli Alleati, come afferma il presentatore dell’opera, gen. Giuseppe Valotto, quella resa che poi si materializzò l’8 settembre 1943 con l’armistizio di Cassibile (diciamo 8 settembre anche se sappiamo che, in realtà, l’armistizio fu firmato il 3 e reso pubblico l’8). La documentazione, di tutto rispetto, si avvale soprattutto di fonti italiane e inglesi, queste ultime nella traduzione di Michele Favaccio, senza trascurare una molteplicità di testimonianze personali che arricchiscono soprattutto la parte finale del volume e che, anche se non sempre accedono a dignità storica, inficiate come talvolta sono da partecipazione emotiva personale, contribuiscono tuttavia a rendere palpitante la dimensione del dramma che, in quei giorni del 1943, si consumò sulle nostre spiagge, sulle nostre città e soprattutto sulla pelle della nostra gente. L’obiettivo dichiarato da Corrado Appolloni e Michele Favaccio è di offrire una fedele ricostruzione degli avvenimenti senza “lasciarsi coinvolgere dalle accattivanti mitizzazioni che la fantasia popolare ha creato nel tempo”. La quale fantasia, mi permetto di aggiungere, serve tuttavia come testimonianza evidente del coinvolgimento totale della comunità sociale che quegli eventi produssero nel vissuto popolare. L’opera inizia comunque con un giudizio complessivo, finalizzato, a mio parere, a farci capire il senso complessivo e gli effetti della carneficina a cui diamo il nome di Seconda Guerra Mondiale. Secondo gli Autori, e per quanto mi riguarda condivido questa valutazione, la tragedia rappresentò il suicidio dell’Europa, “i cui Stati più forti, incapaci da secoli di trovare un pacifico modus vivendi, finiranno col distruggersi vicendevolmente a vantaggio di altri Stati quali l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti d’America”. Volutamente sommaria, ma puntuale, è l’analisi degli eventi, che portarono alla Seconda Guerra Mondiale, i quali vanno ricercati in buona misura nell’insoddisfazione generale di vincitori e vinti, soprattutto dei secondi, della Prima Guerra Mondiale, dopo il trattato di pace firmato a Versailles il 28 giugno 1919. Rapida è la successione dei fatti, perché l’obiettivo degli Autori è di arrivare al 10 luglio 1943, allorché “gli alleati sbarcano in Sicilia e la conquistano in 38 giorni”. Ciò stabilito e ribadito, il capitolo su “L’Italia in guerra”, in linee essenziali, focalizza lo stato di impreparazione dell’Italia, in stridente contrasto con l’inguaribile e paradossale ottimismo, indotto dalla retorica mussoliniana, ma ben conosciuto da tutti coloro che, disponendo di un minimo di realismo, temevano a ragione il disastro che puntualmente si verificò. Opportuno dunque il riferimento al Diario del ministro degli esteri Galeazzo Ciano, genero del duce, nel quale funzionavano i positivi condizionamenti della ragione e del buonsenso. Ben consapevole della “totale impreparazione dell’Esercito, assoluta mancanza di mezzi offensivi, inefficienza completa nei comandi”, così sentenziava: “L’avvenire ci riserba molte amarezze”. Profeta Galeazzo Ciano? Direi piuttosto semplice osservatore della realtà, ribadita, sotto certi aspetti, da quel grande stratega che fu il generale tedesco Rommel – soprannominato “la volpe del deserto” – che, il 2 marzo 1941, così annotò nel suo Diario: “Gli Italiani, qui in Africa, sono degli ottimi camerati, e dei bravi soldati. Se avessero i nostri mezzi e la nostra disciplina, potrebbero gareggiare con le nostre migliori truppe… I soldati italiani sono ottimi, pazienti, resistenti, coraggiosi, ma mal comandati e peggio armati”. Seguendo il progetto di coerenza logica, il volume di Appolloni e Favaccio enuncia, a questo punto, in rapida successione, gli avvenimenti bellici e politici principali fino alla conclusione disastrosa della guerra e al Referendum istituzionale, in seguito al quale, il 18 giugno 1946, viene proclamata la Repubblica, per poi entrare in medias res con il denso capitolo dedicato alla Sicilia in guerra. Opportunamente, gli Autori si soffermano anzitutto su un significativo antefatto, risalente all’estate del 1937, dunque a tre anni prima dell’inizio delle operazioni belliche, allorché ebbero luogo in Sicilia, alla presenza del principe ereditario Umberto e dello stesso Mussolini, grandi manovre militari in cui furono impegnati due schieramenti, indicati convenzionalmente come Azzurri e Rossi. Le manovre si conclusero con la netta affermazione degli Azzurri. Per l’occasione, la propaganda di regime, dopo avere sproloquiato su una presunta perfetta efficienza dell’apparato bellico, diffuse la convinzione dell’inattaccabilità della Sicilia. Se qualche esercito nemico avesse ipoteticamente tentato di sbarcare nell’isola, la potenza militare italiana lo avrebbe inesorabilmente bloccato e sbaragliato prima di arrivare al bagnasciuga. La grossa balla, spacciata per inoppugnabile realtà di fatto, aveva lo scopo di rassicurare i Siciliani circa un ipotetico futuro tentativo di invasione e di persuaderli sulla superiorità bellica dell’esercito italiano. Una tragica frottola che, però, non poche persone presero per buona. Non si diceva forse che il duce aveva sempre ragione? Poco dopo lo scoppio della guerra, si sperimentava intanto, con i primi attacchi aerei degli Alleati, il netto peggioramento, già molto precario, delle condizioni di vita. Con il razionamento dello zucchero, del sapone e successivamente perfino del pane, si favoriva lo sviluppo del mercato nero, dell’intrallazzo, come si diceva allora.
C’è altresì da rilevare anche che la presenza in Sicilia degli alleati tedeschi, i quali non riuscivano a camuffare il loro senso di superiorità sia nei confronti dei Siciliani che dei nostri soldati, aumentava il malumore e cominciava a insinuare nei nostri padri il dubbio e poi i primi segni di sfiducia verso il regime fascista. Si aggiunga a ciò che i tedeschi erano convinti che gli Alleati avrebbero tentato sì lo sbarco, non in Sicilia però, ma semmai in Sardegna o nei Balcani. Il che contrastava con la percezione di insicurezza che, già all’inizio del 1943, era diffusa in tutti i Siciliani che, senza bisogno di fruire delle informazioni dei servizi di intelligence, intuitivamente percepivano che il tentativo di sbarco era alle porte. Il che coincideva peraltro con la convinzione degli Alti Comandi italiani, in contrasto, non solo in questa occasione, con gli Alti Comandi tedeschi. Solo che, pur avendo capito che l’invasione stava per sopraggiungere, il governo italiano, invece di elaborare efficaci strategie di difesa, si esercitava nel passatempo della sostituzione dei Comandanti delle Forze Armate nell’isola, con il risultato, ne deducono gli Autori, che gli ultimi arrivati si trovarono a fronteggiare una situazione che conoscevano solo superficialmente. C’erano poi da affrontare le disastrose condizioni igienico-sanitarie e alimentari della Sicilia, per descrivere le quali Appolloni e Favaccio si avvalgono della preziosa testimonianza del col. Francesco Ronco, imperniata sulla grave carenza di acqua potabile, sulle epidemie sempre in agguato anche a causa dei contagi dei morti di guerra insepolti, sulla fame dilagante, sulle infezioni malariche endemiche, sulla quasi totale mancanza di medicinali e dunque sull’alta mortalità tra la popolazione civile, “che trova riscontro soltanto nelle epidemie”. E dire che, in quel periodo, noi Italiani eravamo sulla carta titolari di un vasto impero e aspiravamo a essere riconosciuti tra le più grandi potenze militari ed economiche del mondo… Si trattava di imperialismo straccione? Interrogativo retorico. Ma lasciamo la risposta agli Autori del libro i quali affermano che, “quando gli Alleati metteranno piede nell’isola, tranne qualche sparuta eccezione, non troveranno né fascisti né antifascisti… ma semplicemente uomini e donne provati da lutti, fame, privazioni e sofferenze, desiderosi solo che tutto finisca al più presto”. E gli Alleati, come è noto, misero effettivamente piede in Sicilia in seguito all’Operazione Husky, laddove Husky designa proprio il famoso cane da slitta siberiano che tutti oggi conosciamo per il fatto che si sta tentando di farlo acclimatare in Sicilia, con alterne fortune, come cane da compagnia o da difesa personale. Appolloni e Favaccio chiariscono che il piano dell’invasione, approvato dal gen. Alexander, prevedeva due ampie zone di sbarco: la prima riservata alla 7° Armata americana, comandata dal focoso gen. Patton, che andava da Licata a Scoglitti; la seconda, riservata all’8° Armata britannica, comandata dal gen. Montgomery, che si sviluppava lungo tutta la zona sud-orientale sicula. Arrivò così il giorno dello sbarco (giorno D), quando, nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943, misero piede nel sud-est siciliano quasi in tranquillità 66.000 americani e 115.000 britannici, che poi salirono a complessivi 478.000 uomini. Le forze dell’Asse dislocate in Sicilia contavano invece circa 200.000 uomini, di cui 28.000 tedeschi. Superiorità degli Alleati in uomini, ma soprattutto e in forma schiacciante nell’armamento, molto più moderno e distruttivo e infinitamente superiore al nostro nel numero di strumenti di morte. A questo punto, si farebbe strada la tentazione di seguire gli Autori nella precisa ed ampia descrizione delle fasi belliche post irruptionem, dopo lo sbarco, che conducono con la tecnica calcistica domenicale del minuto per minuto. Resistiamo, per evidenti ragioni di sintesi, a tale tentazione per sottolineare alcuni punti chiave. Assicura la vulgata dello sbarco che l’Operazione Husky fu una passeggiata per gli Alleati. Detta vulgata è, almeno parzialmente, smentita dai fatti. Basti precisare, in riferimento alle forze terrestri, che gli Italiani caduti nell’arco dell’Operazione Husky furono 4.678, i Tedeschi 4.325, gli Americani 2811, i Britannici 2.900. Quello che impressiona in questa funerea contabilità è anche l’altissimo numero di Italiani prigionieri, ben 116.681, di fronte a 5.523 tedeschi e a qualche centinaio di soldati anglo-americani che, tra l’altro, furono liberati durante la stessa campagna di Sicilia perché non si sapeva dove e come tenerli prigionieri. Come mai tanti Italiani prigionieri che furono poi tradotti in vari campi di prigionia perfino in America? Credo che la risposta sia da ricercare in buona parte proprio nella evidenza della schiacciante superiorità in uomini e mezzi degli Alleati. Se mi è permessa una breve autocitazione, nel mio libro “Sotto il cielo della Perla Ionica”, a proposito delle fughe di militari italiani e di troppo rapida resa agli invasori, mi sono permesso di considerare quanto segue: “E’ difficile considerare tradimento o viltà la fuga – e, nel nostro caso, la resa – quando l’unica alternativa è la morte sicura per l’impossibilità di respingere l’invasione di un avversario mille volte più forte, numeroso e perfettamente equipaggiato”. Il che, lo affermo fin d’ora, a scanso di equivoci, rende ancora più eroico e ammirevole il sacrificio di uomini come il raddusano Giuseppe Borbone e il netino Luigi Ignazio Adorno.
La mia opinione coincide con il giudizio di Appolloni e Favaccio, i quali, dopo avere premesso che non tutti i comandanti italiani furono all’altezza della situazione, in riferimento all’eroismo di tanti soldati, dichiarano: “Questi uomini, che scelsero di battersi malgrado tutto, meritano tutti gli onori e i massimi riconoscimenti; per contro, a quanti non vollero o non poterono compiere il proprio dovere, crediamo che vadano riconosciute tutte le attenuanti possibili e, di conseguenza, una larga e umana comprensione”. Personalmente, non mi sento di condannare molti italiani che, vista l’impossibilità di contrastare il nemico, si sbandarono e furono salvati dalla popolazione avolese, netina ecc. che li rifornì di abiti civili e, quando possibile, di viveri, salvandoli dalla prigionia e dalla morte. Io, allora bambino di quattro anni e qualche mese, ricordo il cioccolato, le gallette e le scatolette di carne che i soldati alleati mi offrivano sorridendo. Pur tuttavia, la descrizione dei soldati alleati come campioni di correttezza, di civiltà, di rispetto verso la popolazione e verso i vinti, sostanzialmente veritiera, conobbe tuttavia più di un’eccezione. È purtroppo vero che essi, in qualche caso, si abbandonarono a stragi gratuite, come quella raccontata dal giornalista inglese Alexander Clifford, il quale riferì che a Comiso, il giorno dopo lo sbarco, furono catturati e massacrati a freddo a colpi di mitra 60 soldati italiani e 50 tedeschi. La guerra, come ci insegna la tragica esperienza plurimillenaria, può essere più o meno disumana, ma sempre disumana e crudele resta, anche perché le condizioni in cui si svolge eccitano gli istinti più bestiali. Ditemi se non c’è da rabbrividire leggendo, a pagina 189, la testimonianza di Paolo Di Mauro che, trovandosi in contrada Palma, tra Avola e Calabernardo, descrive la scena di un gruppo di americani che, incontrando un ragazzo tedesco, che tentò di darsi alla fuga, “gli spararono e lo ferirono: dopo averlo raggiunto, gli strapparono la piastrina che teneva al collo e lo finirono selvaggiamente a pugnalate”. Agghiacciante! Ma quanti di questi episodi crudeli hanno caratterizzato la Seconda Guerra Mondiale? Veramente la guerra, tutte le guerre meritano condanna inequivocabile in quanto ferita non rimarginabile inferta alla dignità dell’uomo. Descrivendo le condizioni dell’esercito italiano, fornito di armamento desueto, tecnologicamente arretrato e al limite della inefficienza, di servizio sanitario inconsistente, di vestiario che lasciava molto a desiderare, gli Autori non infieriscono sulle innumerevoli carenze che, ancor oggi, ci fanno gridare di indignazione contro Mussolini, il quale, pur consapevole dell’impreparazione bellica, mandò allo sbaraglio “8 milioni di baionette”, come la sua retorica qualificava i ragazzi che spedì al macello e con loro l’Italia intera. Appolloni e Favaccio non esitano a definire il nostro apparato bellico, come una “organizzazione perfettamente disorganizzata”, insomma una riedizione dell’esercito di Franceschiello. La loro dolorosa ironia si estende a quella che veniva definita la piazzaforte di Siracusa-Augusta, che sarebbe stato molto più realistico definire, più che piazzaforte, “piazzadebole”. Ammesso e non concesso che potesse sostenere un attacco dal mare, era totalmente impreparata a controllare un attacco avvolgente mare-aria, che era tuttavia prevedibilissimo. Nella rappresentazione, come si è detto, minuto per minuto, delle operazioni di sbarco, impressiona anche il pressappochismo anglo-americano sia nel raggiungere le zone di sbarco, sia soprattutto nei lanci dei paracadutisti che conobbero macroscopici errori, andando spesso a finire lontanissimi dagli obiettivi prefissati, al punto che molti paracadutisti americani che dovevano prendere terra nei pressi di Gela, andarono a finire a poca distanza da Avola e Noto. L’impressionante superiorità bellica degli Alleati, tuttavia, non solo non subì alcun effetto negativo dai gravi errori dell’aviosbarco, ma addirittura questi ultimi si trasformarono in un vantaggio perché i nostri comandi, ricevendo notizie di atterraggi di paracadutisti quasi ovunque, ne ricevettero l’impressione di essere assediati senza rimedio e, magari senza volerlo, seminarono il panico e la confusione tra le nostre forze di difesa. Pregevole e perfettamente documentata è in particolare la puntuale narrazione dello sbarco con l’utilizzazione dei mezzi anfibi ad Avola a partire dalle 00,20 del 10 luglio 1943. In poche ore, i britannici risalirono il viale Lido e la strada che da Mare Vecchio arriva al centro della città; indi raggiunsero e occuparono prima le scuole elementari “De Amicis” e poi, una volta abbattuto l’eroico Giuseppe Borbone, tutta Avola. Superati, subito dopo, alcuni ostacoli, tra cui quello rappresentato dalla resistenza opposta dal reparto comandato dall’eroico sottotenente Luigi Ignazio Adorno, due colonne britanniche avanzarono rapidamente verso Noto, che raggiunsero intorno a mezzogiorno. Nel pomeriggio, alle 18,30, venne attaccato il caposaldo di Villa Petrosa, sì che, dopo alcuni aspri scontri, la via risultò libera per entrare a Noto l’11 mattina. A nulla valsero le strategie del col. Felice Bartimmo Cancellara che non poté opporsi all’avanzata nemica e dovette registrare gravi perdite. Alle 9,00 dell’11 luglio, il comando inglese era già insediato a Palazzo Ducezio. C’è una annotazione interessante, riguardante Noto, nel Diario del col. Bartimmo che, avendo deciso di ripiegare sulla zona collinare iblea, su Palazzolo, afferma: “Rimanere in Noto voleva dire anche far distruggere la città e farci catturare tutti senza beneficio per l’azione generale”. Ora, noi sappiamo che il 28 febbraio 1943, in seguito all’intensificarsi delle incursioni aeree nemiche sulle città siciliane che poi sarebbero state interessate dallo sbarco, il Commissario Prefettizio al Comune di Noto pronunciò il solenne voto di recare ogni anno, in perpetuo, nella festa di S. Corrado Confalonieri, il 19 febbraio, all’altare maggiore della Cattedrale, un cero votivo per ottenere, tramite la sua intercessione, la liberazione di Noto dalle incursioni aeree e dalle devastazioni della guerra. La tradizione si perpetua fino ad oggi, tanto è vero che, il 19 febbraio scorso, il Sindaco Bonfanti, come tutti i suoi predecessori dopo il 1943, ha rinnovato il rito dell’offerta del cero votivo che ha recato all’altare maggiore della Cattedrale. Alla luce di quanto ha dichiarato il col. Bartimmo, preoccupato che una resistenza ad oltranza avrebbe comportato tra l’altro la distruzione di Noto, ci chiediamo se S. Corrado, salvando Noto dalle distruzioni subite ad esempio da Avola, non abbia illuminato il buonsenso del comandante del 146° rgt per salvare la città barocca e la sua popolazione. Tralascio tra atti di eroismo, diserzioni, fughe nelle campagne, abbandoni di divise in grigioverde ecc. la questione riguardante il contrammiraglio Priamo Leonardi, operante ad Augusta, condannato a morte dai fascisti per tradimento e poi, dopo la caduta del Fascismo, premiato dalla Marina con la medaglia d’argento al valor militare. Fu eroe o traditore? Quello che interessa è che, cambiando il punto di osservazione, cambiando il metro di giudizio o il pregiudizio, tutto diviene possibile, come si vede. Pertanto un eroe può essere considerato disertore e viceversa. È questo solo uno degli argomenti che ci fanno diffidare delle ideologie. Mi interessa però a questo punto sottolineare il “clou” del volume che, a mio avviso, va ricercato nell’ampio spazio giustamente dato dagli autori, entrambi avolesi, ad “Avola in guerra”: oltre 60 pagine su un totale di poco più di 200. Questo capitolo si ricollega poi direttamente all’elenco, che considero virtuoso e benemerito, delle vittime civili e dei soldati avolesi caduti nell’immane conflitto. Questo elenco rende parziale giustizia ai caduti avolesi della Seconda Guerra Mondiale che, purtroppo, sono stati spesso considerati come morti ingombranti di una guerra perduta, e non hanno ricevuto gli onori dei caduti della Prima Guerra Mondiale, i cui nomi giustamente sono incisi sulle stele dei monumenti ai caduti che ogni città elevò dopo la fine della guerra, in genere negli anni Venti del Novecento. Mentre, per quanto mi riguarda personalmente, vedo onorati due miei prozii, due Angelo Fortuna, entrambi appunto con il mio stesso nome, caduti ventenni nel corso della Prima Guerra Mondiale, ho dovuto attendere la pubblicazione di questo libro per vedere onorata la memoria di mio zio Vincenzo Passarello, uno dei ragazzi dell’ARMIR mandati allo sbaraglio nella steppa russa, caduto nei pressi del Don. Il capitolo su “Avola in guerra” dà man mano notizia di vari caduti, a partire da coloro che perirono nella battaglia di Capo Matapan (28 – 29 marzo 1941), frutto di uno studio di Michele Favaccio. Mi sembra particolarmente meritevole il ricordo di una delle grandi tragedie dimenticate, avvenuta a due passi dalla spiaggia avolese. Mi riferisco al tragico affondamento del transatlantico Conte Rosso, avvenuto il 24 maggio 1941 nel tratto di mare antistante il Capo Murro di Porco, in pratica a sinistra del Lido di Avola. Il transatlantico, silurato dal sommergibile inglese HMS Upholder, comandato da David Wanklyn, era stato requisito dalla Marina italiana per essere adibito a trasporto truppe in Libia. Ebbene, il suo affondamento provocò la morte di 1.297 uomini su 2.729 imbarcati. È stata una delle più grandi tragedie marittime della Seconda Guerra Mondiale. Il relitto del transatlantico Conte Rosso giace ancora al largo del mare di Avola, dove furono affondate durante il conflitto molte altre navi. Per molto tempo dopo la guerra, i più aitanti dei ragazzi avolesi esperti di nuoto si tuffavano con una meta fissa: la nave inabissatasi al largo del lido di Avola. Corrado Appolloni riporta opportunamente alcune cronache che i maestri elementari erano obbligati dal regime a redigere, prima e dopo la guerra, assieme ai normali registri. Attraverso tali cronache è possibile constatare come, all’inizio della guerra, gli sproloqui inneggianti all’immancabile vittoria finale, secondo le direttive del regime, a poco a poco, cedessero il posto al dubbio, all’incredulità e infine allo scoraggiamento per la sconfitta e per le condizioni di miseria in cui si trovava la popolazione avolese. A pag. 105 viene riportato un volantino diffuso dall’allora parroco Antonio Frasca della Chiesa Madre di Avola per invitare gli intellettuali avolesi a partecipare a una tre sere (29 – 30 aprile e 1° maggio 1943) per cercare “da saggi di veder chiaro in noi e intorno a noi”. Segue questo commento: “L’iniziativa si inquadra nella politica svolta all’epoca dal Vaticano, il quale si prepara a fronteggiare l’ormai prossima caduta del Regime”. Mi consentirà il mio caro amico Silvano di dire che questa affermazione odora di ideologia. Quella iniziativa del sacerdote Frasca, battagliero sacerdote, lottatore instancabile contro tutti i totalitarismi ma anche sensibile poeta, come avemmo modo di verificare dopo la sua scomparsa, era solo una benemerita attività culturale ed ecclesiale, che voleva incoraggiare gli intellettuali locali alla ripresa dallo choc bellico. Quanto alla “politica” del Vaticano, se così vogliamo impropriamente continuare a chiamarla, sappiamo che essa aveva come impegno primario la pace e, in quel periodo, era diretta a salvare migliaia di fratelli ebrei dalla deportazione, nascondendoli nei conventi e a tenere alto l’onore di Roma, abbandonata a sé stessa dal re, dal governo e dagli alti burocrati. Solo Pio XII rimase al suo posto, pur sapendo che Hitler aveva studiato un piano per un suo rapimento con relativa deportazione in Germania. Ciò detto, va solo aggiunto che la descrizione puntigliosa dei vari momenti dello sbarco costituisce una documentazione di cui non potrà fare a meno chiunque intende accingersi a una propria ricerca su quello che avvenne in quei tragici giorni. Le testimonianze congiunte di singole persone, di combattenti italiani, di militari inglesi (nella traduzione delle loro memorie e scritti che, come abbiamo già considerato, ne ha fatto Michele Favaccio) accedono spesso alla soglia della dignità storica. È perfettamente descritta la confusione, i pressappochismi, il terrore della gente. Agghiacciante è il ricordo dell’uccisione di Salvatore Piccione che, in buona fede e senza accorgersi del pericolo che correva, la mattina del 10 luglio, si trovava nei pressi del cimitero e portava un fucile da caccia a tracolla. All’intimazione dei militari inglesi di buttar via l’arma, rimase perplesso senza capire che cosa volessero. Quella perplessità gli fu fatale. Una scarica di mitra si incaricò di abbatterlo; egli rimase qualche istante aggrappato a un cancello di ferro prima di crollare per terra. Epica è la strenua resistenza opposta al nemico dal già citato fante mitragliere Giuseppe Borbone da Raddusa, medaglia d’argento alla memoria, rimasto ucciso nel suo fortino sistemato tra via Nizza e via Siracusa. Commovente la cronaca dell’uccisione del sottotenente Luigi Ignazio Adorno che combatté strenuamente con la pistola in pugno prima di cadere mortalmente colpito. Toccante il fatto che gli Inglesi gli concessero l’onore delle armi, ammirati per il suo coraggio. Credo che vada a merito degli Autori non essersi lasciati coinvolgere completamente nel tumulto bellico, l’aver mantenuto cioè una certa distanza prospettica per dare risalto alle testimonianze, invece che alle proprie opinioni e sensazioni. Dopo il capitolo su “Avola in guerra”, non poteva mancare il successivo dedicato al “Dopoguerra ad Avola”, periodo anch’esso segnato da precarietà, lutti, fame, ma anche da segnali di speranza. Intanto, le forze di occupazione mettevano a disposizione medicinali, soprattutto per fronteggiare l’emergenza della malaria, mentre poco o nulla si poteva fare per salvare la popolazione da tifo, paratifo, meningite e altre malattie per cui sarebbe stato necessario disporre di antibiotici, merce rarissima all’epoca, il più delle volte ancora in fase di sperimentazione. I vincitori procurarono anche viveri alla popolazione affamata, beninteso in misura largamente insufficiente. Malgrado le rassicurazioni delle truppe occupanti, molti avolesi restarono per parecchio tempo, molti fino alla fine di settembre e parte di ottobre, rifugiati nelle grotte della Montagna. Naturalmente, come purtroppo avviene in simili casi, essendo le abitazioni cittadine abbandonate dai proprietari, furono facile preda di sciacalli che non esitavano a saccheggiare e scavare perfino tra le macerie, sotto le quali si trovavano ancora i cadaveri in avanzato stato di decomposizione delle persone morte sotto i bombardamenti del 9 e del 10 luglio e della seconda e terza decade di quel tragico mese. Per gli sciacalli le disgrazie altrui sono una manna del cielo; le scelleratezze dei farabutti non si fermarono dinanzi a nulla. Altro che umana pietas! Malgrado tutte le cautele delle famiglie e, bisogna dirlo, degli ordini dei comandi militari alleati, si registrarono stupri, ma anche rappresaglie e ritorsioni da parte dei familiari delle vittime, che fecero sparire in fondo ai pozzi alcuni stupratori o aspiranti tali. Anche dopo il rientro in città, si viveva in stato di estrema precarietà. Giustamente, gli Autori, parlando dei caduti avolesi dopo l’8 settembre, che causò lo stato di confusione che sappiamo, danno ampio spazio all’infame strage perpetrata dai nazisti a Cefalonia, dove, tra gli altri, fu trucidato il giovane sottotenente di vascello Salvatore Denaro, per dar spazio dopo al sorgere della Repubblica Sociale Italiana, alla guerra partigiana fratricida, alla confusione postbellica. Interessante la parte in cui si chiarisce come la maggior parte della popolazione continuava a vivere di espedienti per carenza di generi di prima necessità, mentre si può considerare una nota di colore, che per lo meno apre a un sorriso di bonaria ironia, il fatto che i fumatori incalliti, non potendo comprare sigarette, se le preparavano artigianalmente utilizzando pezzetti carta di giornale o di quaderno e foglie essiccate della vite. È il famoso “tabaccu i preula”, poi utilizzato anche dagli adolescenti che, essendo al verde, negli anni Cinquanta non si facevano scrupolo di scimmiottare gli adulti forgiando questo tipo di sigaretta da economia di guerra. Con grave ritardo rispetto agli anni precedenti e seguenti, a fine novembre 1943, si riaprirono le scuole. Ebbene, riprendendo in mano le relazioni dei maestri, stilate dopo lo sbarco e la sconfitta bellica, Corrado Appolloni rileva come la retorica sfrenata dell’immancabile vittoria italiana, unitamente alla baldanza acritica e alla mitizzazione del duce, aveva ceduto il posto alla cruda realtà della sconfitta, della fame endemica, della mancanza di igiene e della desolazione. La maggior parte dei bambini andava a scuola coperta di cenci, stracci e a piedi nudi, oltre che morta di fame. Capelli lunghi, spettinati e pidocchi erano la regola, così come l’aspetto pallido e macilento dei fanciulli, molti dei quali, come affermava il maestro Vincenzo Alia, si nutrivano come i popoli primitivi, cioè cercando erbe nelle campagne e rubacchiando qualche frutto. Se gli Autori si soffermano a esaminare la situazione avolese, ciò non significa che altrove, a Noto, a Pachino, a Rosolini, la situazione fosse diversa. Quasi ovunque avvenivano le stesse cose, perfino nel campo sociale. Se ad Avola la lotta politica per il potere era tra il podestà Corrado Santuccio e “u cavaleri” Antonio D’Agata, altrove cambiano i nomi, ma emergevano personalità come, appunto, “u putistà e u cavaleri” ad Avola. A Noto, ad esempio, si ricordano ancora oggi i “genovisiani” e i “sallichiniani” Siamo già pervenuti, dunque, alla grande svolta, cioè, al Referendum istituzionale del 2 giugno 1946 e alla conseguente proclamazione della Repubblica Italiana (12 giugno 1946). Cominciava un nuovo capitolo che, pur registrando ancora contraddizioni e ingiustizie, avviava l’Italia a uno sviluppo certamente disordinato, ma incredibilmente veloce che preludeva al “miracolo economico”. Un’altra storia, insomma, ma effetto diretto delle conseguenze dello sbarco. 70 anni sono passati dall’invasione anglo-americana e 73 dall’inizio di quella carneficina che fece oltre 50 milioni di morti e inaudite distruzioni nel nostro travagliato globo terrestre. Basti pensare a Pearl Harbour, alle atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, al bombardamento di Dresda, alle vittime dell’Olocausto, ai nostri tanti ragazzi che videro spezzata la loro esistenza, oltre che in patria, in Africa, in Russia, in Grecia e in cento altri teatri di morte. Si sperava che il sacrificio di tante persone umane potesse almeno scongiurare conflitti futuri. Sappiamo che non è stato così; Corea, Vietnam, Cambogia, Iraq, Siria e molti altri conflitti regionali hanno continuato a mietere vittime e a provocare sofferenze inaudite. Il sentiero dell’amore, della pace e della comprensione dei popoli affascina le anime nobili, ma è purtroppo molto meno praticato dei sentieri di morte. Eppure resta l’unica via percorribile per isolare i seminatori di odio, di violenza, di ideologie disumane e per edificare una società a misura d’uomo. Questo bel volume di Corrado Appolloni e Michele Favaccio focalizza efficacemente con obiettività, grazie anche al supporto della vasta documentazione, quello che è realmente successo ad Avola, a Noto e in tutta la Sicilia sud-orientale dallo sbarco anglo-americano in poi, dal 10 luglio 1943 alla fine del conflitto. Pur con tutte le tragedie umane che provocò, indubbiamente contribuì a cambiare il senso della storia della nostra isola che, paradossalmente e, aggiungiamo, fortunatamente, da invasa dal nemico, si ritrovò liberata dal totalitarismo e da ataviche chiusure verso il mondo esterno. Da allora, la Sicilia ha inseguito il sogno della modernità, del progresso, che avrebbe dovuto cancellare secoli di emarginazione e di sottosviluppo. Apparve all’inizio come una sorta di Eldorado il miraggio delle ciminiere della SINCAT, del complesso petrolchimico di Priolo Gargallo, delle raffinerie di Augusta. Oggi conosciamo anche il lato disumano e talvolta criminale di questo pseudo sviluppo che ha inquinato tutta la zona nord della nostra provincia e liquidato i valori comunitari della tradizione, della nostra profonda identità umana. A 70 anni da quei fatti possediamo dunque il retroterra storico per prendere atto dei benefici e anche dei guasti della pseudo emancipazione indotta da una forma di industrializzazione in eclatante disarmonia con la vocazione specifica isolana che non può essere attualmente mossa che da due imperativi: privilegiare la dimensione mediterranea della Sicilia e prendere atto della sua forte appartenenza alla cultura europea. Il tutto nella fedeltà alla propria identità umana, sedimentata da millenni di esperienza e fondata sulla fratellanza e sulla solidarietà. Per tutti questi motivi credo proprio che la suddivisione che ho proposto all’inizio tra prima dello sbarco e dopo lo sbarco, tra ante Anglorum irruptionem e post Anglorum irruptionem non sia affatto campata in aria e ci accompagnerà ancora a lungo. Ben oltre la nostra generazione. Anche grazie a questo benemerito lavoro storico-letterario di Corrado Appolloni e Michele Favaccio.
Noto, 24 Maggio 2013 Angelo Fortuna
NB: Le foto della conferenza sono
del ns. amico prof. Francesco Capodicasa che ringraziamo.