A. Fortuna: riflessioni su “La lama sottile dell’amore” di C. Calvo.
Riflessioni su “La lama sottile dell’amore” di Corrado Calvo
di Angelo Fortuna
Fin dalla lettura delle prime pagine de “La lama sottile dell’amore” mi è venuto in mente “Groviglio di vipere” (“Le noeud de vipères”) di François Mauriac (1932). Il grande scrittore francese (1885 – 1970) descrive fatti, vizi e rare virtù della borghesia di una cittadina di provincia, che, sotto molti aspetti, mutatis mutandis, rassomiglia al paese (Rosolini? Pachino? Avola? Noto? Ispica? Portopalo?), in cui si sviluppa la trama del romanzo di Corrado Calvo. Se questo è vero, “Groviglio di vipere” potrebbe essere considerato una specie di sottotitolo de “La lama sottile dell’amore”, utile per introdurci alla serie di messaggi che il nostro Autore desidera veicolare.
Venendo specificamente al romanzo, “La lama sottile dell’amore” (Santocono ed., Rosolini, 2019), è opportuno sottolineare per entrare in medias res, da un lato, la latitanza per non dire l’assenza quasi pervasiva dell’altruismo e, dall’altro, la superfetazione dell’individualismo.
A mio parere, gli scrittori, in generale, si possono collocare in due categorie distinte ma non opposte. Ci sono quelli che descrivono la realtà degli uomini come essa è, ma ci sono pure quelli che la descrivono con il pensiero rivolto a come dovrebbe essere. È significativo che i migliori appartenenti a queste due categorie presentino interconnessioni che rivelano come, sia pure da punti di vista differenti, si possa convergere infine nel rappresentare la complessità dell’essere umano, come un concentrato di bene e di male, per cui il progresso individuale e collettivo, la società civile insomma, consiste nella capacità di dare il massimo spazio al bene che è in ognuno di noi, relegando il male che ci abita in un angolo oscuro fino ad eliminarlo. Sarebbe proprio questo l’ideale che molti giudicano purtroppo astratto e irraggiungibile.
Corrado Calvo, lo diciamo subito, appartiene alla categoria degli scrittori che vedono prevalere nella società degli uomini, come suggerito all’inizio, un groviglio di vipere, sempre per dirla con Mauriac, un groviglio di velenosi soggetti spinti da bramosia di dominio, da volontà di potenza, direbbe Freud, per cui tutta la loro vita è impregnata di odio, di invidia che corrode, di sete di vendetta, di vano orgoglio, di avidità di successo, di piacere di crogiolarsi nel male degli altri, a spese, naturalmente dei più deboli e della minoranza che crede ancora nei grandi valori e ideali che rendono la vita degna di essere vissuta, a spese dunque degli operatori di bene. Lo scatenamento del male, che Corrado dipinge senza infingimenti, travolge la vita dei giusti che, poi, solo alla fine, proprio per quelle interconnessioni di cui dicevamo, ottengono il dovuto riconoscimento che, almeno in parte, riconcilia con la vita e con la giustizia giusta.
Sospetto, brama di successo materiale, insincerità, inimicizia, freddo egoismo, scarsa o nulla considerazione dell’altro, fanno sì che, in “La lama sottile dell’amore”, quasi tutti i protagonisti corrano verso la loro propria autodistruzione senza neppure accorgersene, travolti come sono da passione travolgente da cui sembra esclusa, oltre che ogni forma di amore per il prossimo, anche la fredda razionalità. L’amore è inteso come erotismo sfrenato, mentre agape, cioè l’amore disinteressato, fraterno, smisurato, emerge a fatica. Assente risulta, a parte lodevoli e rare eccezioni, l’amore come dedizione totale senza misura, quell’amore che suggerì a madre Teresa di Calcutta lo splendido aforisma per cui “la misura dell’amore è amare senza misura”. Nel nostro caso, l’amore come erotismo senza scrupoli si manifesta particolarmente in alcuni personaggi, characters vengono definiti in inglese, come Raimondo Scimone, che da defunto, indirettamente ma con forza, continua a pontificare sulla necessità di far male, di annichilire gli avversari, anche quando non farebbero male ad alcuno. L’alter ego di Raimondo Scimone è il figlio Ludovico Scimone, vivo e vegeto, imprenditore agricolo senza scrupoli, intento a far soldi e a moltiplicare il numero delle amanti, il quale si ritrova con un fratello, Carmine, a suo avviso degenere, perché non segue le sue demoniache orme di presunto vincitore in questo mondo in cui i più forti dominano sui deboli. Carmine, invece, ventre molle della famiglia Scimone secondo Ludovico, si dà all’arte, alla pittura, e, somma disgrazia, vuole sposare Gertrude, figlia di un’ex-amante del padre e sorella della dolcissima Maria Luisa, morta suicida come il fidanzato Roberto Scimone, fratello dei due già citati Ludovico e Carmine, il quale, partito militare, fu trovato morto, suicida, si disse, in circostanze che richiamano alla memoria la tragica vicenda di Emanuele Scieri, Lele, il ragazzo nostro conterraneo trovato morto nel 1999 ai piedi della torre di addestramento della Folgore a Pisa in circostanze ancora tutt’altro che chiare (tragico nonnismo?). Un intreccio interessantissimo quello de “La lama sottile dell’amore” che reclama la lettura completa del bel romanzo che, diciamolo pure, lascia spesso l’amaro in bocca nella misura in cui i malvagi appaiono come invincibili nella vita ridotta a lotta spietata, l’uno contro l’altro. Poiché l’uno cerca la rovina dell’altro, il risultato è una tragedia che finisce per coinvolgere quasi tutti i personaggi (characters).
Il protagonista assoluto rimane Ludovico Scimone, fotocopia del padre Raimondo, cioè dello stupratore seriale, di quel mostro di ferocia belluina, che si avventa perfino su Maria Luisa, meravigliosa fanciulla, fidanzata innamoratissima di suo figlio Roberto, la quale, dopo lo stupro, non vede l’ora, si può dire, di raggiungere, tramite il suicidio, il ragazzo che l’ha preceduta nell’aldilà. Impressiona, mentre una lunga serie di delitti si consuma nel silenzio, la partecipazione muta di quasi tutto il paese, che è però al corrente di tutto, come se porte e finestre chiuse fossero fornite di occhi ed orecchi. La conclusione è che non soltanto Concetta, amica d’infanzia di Ludovico, pronta e ben felice di darsi a lui e di informarlo su ciò che avviene in casa di Gertrude, sorella minore di Maria Luisa, e della vecchia mamma Giuliana, già amante del defunto Raimondo, non soltanto Elena, moglie di Ludovico e sua anima nera almeno finché non si stanca dei suoi tradimenti e non lo mette dinanzi a un finto tradimento per dileggiarlo e metterlo dinanzi alle sue meschinità, ma anche l’intero paese partecipa coralmente alla tragedia che, per buona parte del suo sviluppo, appare senza catarsi.
Tuttavia, la possibilità di purificazione spirituale e di redenzione si fa luce piano piano superando le barriere del male trionfante, che, alla fine, si ritorce su sé stesso. Il maestro Armando Pallavicino, di fatto in pensione, dato che ha deciso di non andare più a scuola, personaggio melenso, lezioso e sfuggente, di carattere debole e quasi sprovvisto di vigore intellettuale e umano, mira a far fallire il rapporto d’amore tra Carmine e Gertrude. Ricordiamo ancora una volta che Carmine è il fratello, considerato degenere, di Ludovico e disonore degli Scimone dediti al potere e al sesso scatenato, un fratello che chissà perché non mira a successi di sorta ed è per giunta conquistato dalla sensibilità artistica. Un debole, insomma, un mite agli occhi del fratello Ludovico, che nulla ha preso del patriarca Raimondo se si innamora addirittura di Gertrude. A causa della sua debolezza di persona vile e senza forti valori, il maestro Armando Pallavicino lascia Maria Luisa di cui era innamorato nelle grinfie del bestione Raimondo Scimone, partecipando così attivamente a determinare il suicidio della dolce fanciulla. Riesce, comunque, il maestro Pallavicino a redimersi scoprendo infine i veri valori umani grazie alla lettura dei mistici e, in definitiva, riconoscendosi nel messaggio cristiano di salvezza. Trova così il suo riscatto.
Infine, grazie anche alla mediazione, non sempre invero lineare delle amiche Adele e Assunta, anche Gertrude finisce per comprendere, malgrado i numerosi ostacoli e incomprensioni che si frappongono al loro rapporto d’amore, che l’uomo della sua vita è Carmine, sì che il romanzo si conclude quando è ormai chiaro che il loro matrimonio è alle porte.
In definitiva, sottolinerei che Corrado sembra muoversi sulla stessa lunghezza d’onda di Honoré de Balzac, il quale si vantava, mettendo in scena un immenso numero di personaggi, di far concorrenza allo stato civile. Anche il Nostro mette in scena molti personaggi, tutti ben caratterizzati e credibili. Si approssima a Balzac, uno dei padri nobili del realismo nel romanzo, anche per quel che concerne la cosiddetta “question d’argent”, cioè per lo spazio sproporzionato occupato dai personaggi, privi di ideali, ma assetati di potere e di denaro.
Pur raffigurando un mondo in cui i disvalori sembrano fatalmente vincenti e i valori sostanzialmente perdenti, l’autore, Corrado Calvo, senza forzature idelogiche, ma convintamente propende per i secondi, dunque per il recupero dei valori. La conclusione del suo bel romanzo, che ha il merito di riprodurre il cammino accidentato della vita, lo attesta.
Angelo Fortuna